L'editoriale

Pensioni, la grande truffa

Eliana Giusto

di Maurizio Belpietro Ieri, a Napoli, un pensionato ha minacciato di tagliarsi le vene di fronte al ministro del Lavoro se non fosse stato trovato un impiego al figlio disoccupato. La notizia probabilmente verrà oggi riportata tra le brevi di cronaca, a margine delle grandi questioni di politica economica nazionale e internazionale. E probabilmente è giusto così, perché si tratta del gesto di un disperato, il caso isolato di un signore che voleva attirare l’attenzione su di sé, sulla sua famiglia e sui suoi guai. La stampa deve evitare di dare troppa rilevanza alle proteste estreme, perché altrimenti c’è il rischio che scatti un fenomeno di imitazione e altri minaccino gesti eclatanti come quello di ieri.  E però di casi come quello di Napoli, di persone che non sanno più a che santo votarsi per trovare il modo di campare, ce ne sono tanti e non solo nel Mezzogiorno. Gente che ha perso il lavoro e non ha ancora trovato la pensione, signori e signore che si erano fatti i loro conti e credevano di essere in salvo e invece si ritrovano ricacciati nel mare in tempesta di una crisi che non offre alcun appiglio. Finora per  queste decine di migliaia di lavoratori o ex lavoratori, di pensionati o aspiranti tali, nonostante le rassicurazioni del governo e i periodici annunci tranquillizzanti, non è stata trovata alcuna soluzione. Il caso degli esodati  è noto: si tratta di duecento, forse trecentomila persone che erano state invitate a dimettersi e rinunciare al proprio posto di lavoro in cambio di una buonuscita che copriva il periodo necessario al conseguimento della pensione. La riforma previdenziale di Elsa Fornero ha spazzato via tutto, soprattutto le loro sicurezze e da prepensionati  certi si sono ritrovati disoccupati incerti. Ad oggi i soldi per garantire loro il vitalizio non sono stati ancora individuati: forse si provvederà a rendere un po’ più leggero l’assegno di quiescenza dei più fortunati, ma è una guerra fra poveri e non è detto che i fondi bastino per tutti. Se la legge entrata in vigore nel dicembre dello scorso anno per molte decine di migliaia di persone ha il sapore di una fregatura, c’è una norma che riguarda altre maestranze in attesa di pensione che ha invece le caratteristiche di un’autentica truffa. Si tratta del caso dei cosiddetti ricongiungimenti, ovvero dell’unificazione di contributi a enti diversi o presso gestioni separate. Un tempo mettere insieme i versamenti fatti all’Inps, all’Inpdap o ad altri istituti era assai semplice e per nulla o quasi oneroso. La cosa importante era che alla fine si raggiungesse la quota per poter accedere al trattamento previdenziale, cioè i famosi 35 anni che sommati all’età davano un certo valore. Che le «marchette», così le chiamavano i nostri nonni ma anche molti papà, fossero state corrisposte all’Inps o ad altri poco contava. E invece eccoci qua, con le nuove norme, volute non dal governo tecnico e dai professori ma da chi li ha preceduti e in particolare dal ministro Maurizio Sacconi, persona per bene e competente. Il quale, costretto dalla Unione europea ad uniformare l’anno di andata in pensione delle donne del pubblico impiego con quello degli uomini, per impedire che le signore svicolassero e giocassero sui diversi sistemi previdenziali, decise di metterci una pezza affinché la via d’uscita non diventasse una voragine. Purtroppo il meccanismo si è rivelato perverso e ne sanno qualcosa i molti lettori che in questi giorni ci hanno scritto, raccogliendo il nostro invito a raccontarci le loro peripezie previdenziali. All’interno troverete le loro storie.  C’è chi ha lavorato per 33 anni al ministero del Lavoro e negli ultimi tre, pur non avendo cambiato scrivania, ha mutato mansione, corrispondendo i contributi all’Inpdap piuttosto che all’Inps, con il risultato che per ritirarsi e avere l’ambìto assegno deve prima sganciare 70 mila euro. C’è chi, dopo 40 anni di lavoro, sedici dei quali trascorsi con il regime Inps e altri ventuno sotto l’Inpdap, per potersi godere la pensione deve versare 202 mila euro in un’unica soluzione o 300 mila in comode rate.  C’è chi dopo 25,5 anni di Inps e 15,5 di Inpdap, a 67 si sente richiedere 100 mila euro per lasciare il posto. Certo, adottando il metro di misura del pensionato che minaccia un gesto inconsulto, potremmo dire che si tratta di casi estremi, di persone sfortunate che sono incappate nel rigore della legge o, meglio, in una legge che impone il rigore senza guardare in faccia a nessuno, in particolar modo alla povera gente e ai poveri cristi che hanno sempre faticato. Sta di fatto che i casi estremi come quelli che raccontiamo potrebbero essere 650 mila, ai quali ovviamente si aggiungono i 350 mila esodati che ancora attendono di conoscere quale sarà il loro futuro.   Come è noto, noi siamo da sempre stati favorevoli a una riforma previdenziale che aumentasse l’età pensionabile, perché ritenevamo non più sostenibile che persone in salute andassero ai giardinetti a poco più di cinquant’anni. Ma la riforma non la volevamo a tutti i costi, soprattutto non a questo prezzo, non in cambio della sofferenza di gente che ha lavorato sperando di garantirsi un  riposo e il futuro ora ne è privata da una norma sbagliata. Qualche giorno fa Elsa Fornero ha detto che il suo compito non era distribuire caramelle. Aveva ragione: un ministro del Lavoro non va in giro a fare regali ma  provvede a risolvere ciò che è giusto risolvere. E nel caso dei ricongiungimenti onerosi è evidente che una soluzione va trovata e il responsabile del Welfare non si può in alcun modo sottrarre all’obbligo. Noi non abbiamo il potere di un ministro, ma per quanto ci riguarda continueremo a occuparci delle migliaia di persone che devono pagare il riscatto allo Stato per ottenere la propria pensione. Come ogni sequestro è un affare che non merita di essere lasciato impunito.