L'editoriale
La banda degli onestiha perso la faccia
C’era una volta la banda degli onesti, gente moralmente integra che nel mare della corruzione e del malaffare politico teneva la barra dritta, indicando al Paese la direzione verso cui orientarsi. Che era, manco a dirlo, a sinistra. I galantuomini erano tutti lì, tra i compagni. E i masnadieri tutti dall’altra parte, costretti a fare i conti con la magistratura. C’era una volta, abbiamo scritto. Perché ormai la banda degli onesti non c’è più e gran parte dei suoi componenti è inseguita dai giudici. La settimana era cominciata in malo modo, in particolare per Pier Luigi Bersani, il quale mentre è impegnato nella campagna per le primarie si è visto arrestare l’architetto in affari con il suo ex capo della segreteria, tal Filippo Penati, già uomo forte del Partito democratico in Lombardia. Renato Sarno avrebbe fatto da collettore per le tangenti a favore del gruppo dirigente della sinistra. Come se non bastasse, sul leader del Pd è cascata la tegola della sua segretaria, la quale pur svolgendo il proprio lavoro nell’ufficio del gran capo era pagata (...) (...) dalla Regione Emilia con i soldi dei contribuenti. Una truffa per cui la signora Zoia Veronesi è indagata e che rischia di allargarsi ad altri, tra cui il capo di gabinetto del governatore Vasco Errani, con l’accusa di abuso d’ufficio. Tuttavia i guai non vengono mai soli, per cui in Calabria uno degli esponenti di spicco del Pd, Nicola Adamo, già vicepresidente della Regione ai tempi di Agazio Loiero, rischia il processo con l’accusa di aver intascato una maxi tangente di 912 mila euro in cambio del via libera alla costruzione di un parco eolico. Non va meglio a Napoli, città a lungo amministrata dalla sinistra prima di finire nelle mani di un magistrato caro ad Antonio Di Pietro. Rosa Russo Iervolino e gran parte della sua giunta sarebbero finiti nei guai per l’assunzione di 200 persone senza alcun concorso: una lottizzazione in piena regola di cui pare dovranno rendere conto all’autorità giudiziaria. In fondo però, all’ex sindaca è andata ancora bene, perché ad un altro esponente del Pd campano, l’uomo che era chiamato il viceré di Napoli, è stato chiesto di restituire 43 milioni. Antonio Bassolino li avrebbe spesi affidando appalti che non erano dovuti e dunque procurando un danno all’erario che ora gli è fatto obbligo di risarcire. Non è finita. Nella stessa giornata di ieri si è appreso che anche il signor Finocchiaro, marito della senatrice siciliana Anna, capogruppo del Pd e da legislature in Parlamento, dovrà presentarsi davanti alla giustizia. L’uomo è imputato di aver fatto indebite pressioni per ottenere un appalto: 1,7 milioni per l’informatizzazione del sistema ospedaliero catanese. Ipotesi di reato: abuso d’ufficio e truffa. Fin qui ciò che riguarda direttamente il Pd, un elenco lungo dal quale abbiamo espunto ciò che risale a mesi fa (a cominciare dal caso che riguarda lo stesso governatore dell’Emilia Romagna, rinviato a giudizio per il sospetto che abbia favorito il fratello, per finire all’ex vicepresidente pugliese, sotto processo per una storia di appalti ed escort) altrimenti avremmo dovuto occupare l’intera pagina. Se il Partito democratico e i suoi eletti stanno male, non è che gli altri compagni se la passino bene. A cominciare dall’alleato numero uno, il governatore della Puglia. Nei confronti di Nichi Vendola, per aver favorito la nomina di un primario facendo riaprire le selezioni, ieri è stata chiesta una condanna a 20 mesi di carcere. E questo non è che il primo dei procedimenti che vede sul banco degli imputati il presidente della Regione. Già tutto ciò basta e avanza per descrivere come si sia ridotta la banda degli onesti, ma non vogliamo trascurare l’uomo che alzò il ditino per rimproverare Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio, contestandone la linea politica e i comportamenti. Avrete già capito di chi parliamo: ovviamente di Gianfranco Fini, colui che contestando il Cavaliere sulla questione morale lo ha fiaccato, sottraendogli parlamentari fino a indebolirlo. Del presidente della Camera siamo tornati a occuparci la scorsa settimana in seguito a uno scoop dell’Espresso. Il settimanale debenedettiano aveva infatti scovato tra le carte dell’inchiesta sui finanziamenti della Banca popolare di Milano, alcuni documenti che riconducevano a Elisabetta e Giancarlo Tulliani, rispettivamente compagna e «cognato» della terza carica dello Stato. Di che si trattava? Della coppia dei passaporti dei due e di un modulo per la costituzione di una società in un paradiso fiscale dei Caraibi, insieme con le pratiche per l’apertura di un conto. Cosa ci facevano quelle carte nella casa di un latitante in affari nel gioco d’azzardo? Perché Elisabetta e Giancarlo Tulliani intrattenevano rapporti con un simile personaggio e con un altro legato alla casa di Montecarlo? Sapevano che il padre del latitante, a sua volta in fuga dalla giustizia, era stato condannato per associazione per delinquere dopo essere stato a lungo sospettato di rapporti con la mafia? Alle domande l’uomo con il ditino alzato non ha risposto. Ma ora l’Espresso torna sul luogo del delitto, rivelando che nel computer del latitante vi sarebbero altre carte che riguardano i Tulliani e li legano sempre più a Francesco Corallo, il signore delle slot machine. Dunque si fa ancor più attuale una domandina: che cosa hanno da spartire la compagna e il cognato della terza carica dello Stato con i casinò? Il quesito naturalmente si aggiunge ai tanti altri, a quelli che riguardano la segretaria a sbafo di Bersani, il parco eolico che in Calabria faceva girare le pale solo delle tangenti, i lottizzati e le spese pazze di Napoli, il primario raccomandato di Vendola, il marito della senatrice che fa affari con l’ospedale benedetto dalla giunta regionale sostenuta dal Pd, l’architetto milanese trasformato in collettore di tangenti. Ma poi alla fine dobbiamo riconoscere che si tratta di una domanda sola: cari compagni ed ex camerati convertiti al progressismo, con quale faccia ancora vi definite la banda degli onesti e distribuite patenti di moralità? Non solo: ma l’istituto delle dimissioni vale solo per gli altri e mai per voi? di Maurizio Belpietro