L'editoriale

Bonifichiamo la palude: fermiamo Regionopoli

Andrea Tempestini

  di Maurizio Belpietro Il costituzionalista Michele Ainis ieri sul Corriere della Sera si domandava quando ci decideremo a mettere a dieta il pachiderma. L’elefante sarebbero le Regioni, le quali anno dopo anno hanno aumentato la loro stazza, ingurgitando una porzione sempre maggiore dei soldi degli italiani. Ainis nel suo articolo ripercorre i passaggi che hanno portato alla nascita delle Regioni, dalla Costituzione del 1947 fino alla modifica del titolo quinto voluta dal centrosinistra, che, nel disperato tentativo di sbarrare la strada alla Lega, ha ceduto alle Regioni molte competenze che fino agli inizi degli anni Duemila erano dello Stato. Ainis ha ragione, la riforma ha moltiplicato i centri di potere e con essi anche i centri di spesa e di spreco. Se prima era solo il governo centrale a rubare e a costare, poi ad esso si sono aggiunti venti altri governi che hanno riprodotto in piccolo (ma neppure troppo) quello che si fa a Roma. I consigli regionali si sono trasformati in tanti parlamentini, con quello che ne consegue, ovvero con stipendi da onorevoli per ogni eletto, pensioni, auto blu, segretarie, portaborse, dotazione finanziaria, ma soprattutto clientele da soddisfare. Insomma, grazie all’idea federalista malamente scimmiottata da un centrosinistra impaurito dalla sconfitta, la nostra spesa pubblica è esplosa e con essa le ruberie.  Invece di essere venti ministri e cinquanta sottosegretari a decidere come usare e sprecare i soldi degli italiani, al governo centrale e ai suoi capi si sono aggiunti dieci - quindici assessori per ogni Regione,  più altrettanti capi di gabinetto, consulenti e assistenti, con l’aggiunta di dieci, quindici, venti presidenti di commissione. Tutto è stato dunque moltiplicato per venti. Ma senza mai diminuire di una sola unità la struttura centrale. Mentre le Regioni si trasformavano in piccoli Stati, riproducendo perfino nelle rappresentanze «diplomatiche» estere il governo centrale, quest’ultimo si teneva tutto. Nonostante la salute degli italiani fosse stata devoluta alle Regioni, al ministero della Sanità i direttori, i funzionari e gli impiegati restavano gli stessi. Diminuite le funzioni non diminuivano le spese e l’esercito di dipendenti. È così per tutto il resto. Il federalismo in tal modo è diventata una parodia, una presa in giro che non consentiva ai lombardi o ai veneti di essere padroni in casa propria, ma aumentava esclusivamente i costi della politica, attribuendo le decisioni non più a dieci o venti persone e ai loro collaboratori, ma a duecento-quattrocento di essi e a tutti i loro segretari. Ovviamente ciò è avvenuto senza che nessuno controllasse alcunché, perché, in ossequio all’autonomia, si è lasciato che ogni Consiglio regionale facesse da solo, determinando ognuno le proprie regole e le proprie tutele. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. È non solo nel Lazio, ma anche in Emilia, in Campania, in Liguria. Con più o meno arroganza, con maggiore o minore protervia e sfacciataggine, ogni Consiglio ha fatto con i soldi degli italiani ciò che voleva. Cene, feste, vacanze, case, amanti: un «magna magna» senza fine. Certo, se si osserva ciò che è avvenuto, ossia la degenerazione di un sistema e la moltiplicazione degli sprechi e delle ruberie, verrebbe voglia di suggerire la chiusura di ogni Regione, a cominciare da quelle a Statuto speciale che sono le madri di tutte le spese. Pensare che chiudendo le Regioni, oppure dimezzandone i poteri o cancellandone l’autonomia concessa dal centrosinistra, sia possibile evitare i casi Fiorito, sarebbe però un errore. Il problema non è il federalismo e nemmeno il decentramento. Il problema è il finanziamento pubblico dei partiti e la mancata attuazione della Costituzione laddove prevede che i partiti siano regolamentati. Da anni si chiede di abolire la legge che regala milioni alle forze politiche consentendo a chiunque ne faccia parte di usarli a proprio piacimento senza alcun controllo. E da anni si sollecita l’attuazione dell’articolo che dà forma giuridica alla rappresentanza politica. Se non ci fossero di mezzo soldi pubblici e se i partiti fossero delle società soggette alla presentazione di regolari bilanci e dunque i loro segretari venissero chiamati a rispondere di spese e ammanchi in base al codice civile, gran parte di quanto abbiamo visto in questi mesi non sarebbe accaduto. Non si tratta di chiudere dunque le Regioni, ma di chiudere questi partiti. Chi vuole fare politica si deve assoggettare a delle regole e se è un fallito o un bandito non può avere incarichi operativi. Tuttavia, nel caso di banditi e falliti probabilmente non sarebbe neppure necessario ricorrere al divieto di ricoprire incarichi pubblici, perché se non vi fossero denari dello Stato è quasi certo che ladri e imbroglioni starebbero alla larga dalla politica: se non c’è nulla da spolpare gli avvoltoi girano al largo. Bisogna prosciugare lo stagno in cui i politici arraffoni sguazzano. Bisogna bonificare la palude. A cominciare da Lazio e proseguendo con tutte le altre Regioni, le amministrazioni locali e il governo centrale. Solo così c’è la possiamo fare. Prima cominciamo e meglio è.