Pil peggio che in Spagna

Affari e IndustriaL’Italia ormai ha chiuso le porte

Matteo Legnani

  L’Italia va in malora anche se è ricca, anzi, ricchissima. Non si tratta del solito risparmio privato confrontato con il debito pubblico: il tesoro di cui il nostro Paese dispone è sottoterra, nascosto a centinaia di metri di profondità. A informarci della fortuna su cui camminiamo è stata La Repubblica di ieri. Secondo il giornale debenedettiano nel sottosuolo della penisola ci sono almeno 100 miliardi di euro, una risorsa che ora, in tempi di bolletta energetica alle stelle, molti intenderebbero estrarre. Le trivelle sarebbero pronte in Basilicata, Calabria, Sicilia e Mar Adriatico. «Dopo vent’anni di regressione petrolifera, nel Belpaese è scoppiata la voglia di idrocarburi fai da te», spiegava ieri il quotidiano diretto da Ezio Mauro, secondo il quale ci sarebbero 2,5 miliardi di barili di greggio intrappolati tra i calcari del mesozoico, cui si aggiungono 250 miliardi di metri cubi di gas. Potenzialmente potremmo essere il quarto Paese europeo per produzione di idrocarburi. L’Italia potrebbe ridurre dal 90 all’80 per cento la sua dipendenza da petrolio e gas stranieri. L’estrazione potrebbe portare investimenti per 15 miliardi. Già. Potrebbe. Il condizionale è d’obbligo, perché pur essendo seduti su una fortuna, non è detto che gli italiani abbiano intenzione di farla fruttare. Anzi, a essere onesti, è meglio escludere che ciò possa accadere. Per cui metanodotti, rigassificatori e petrolio Made in Italy, così come previsti dal piano energia del governo, è meglio metterli da parte, perché non si faranno mai. In conclusione, la sola cosa che sarà prodotta in gran quantità saranno le chiacchiere. E insieme ad esse carte, studi, consulenze e dunque sprechi. Che il destino sia questo lo si può dedurre da molti fattori, in particolare dagli atteggiamenti degli enti locali e delle regioni che sarebbero direttamente interessanti dal piano energetico  governativo pomposamente annunciato da Repubblica. Prendete ad esempio la Puglia, una delle zone coinvolte. Lì si vorrebbe estrarre gas al largo delle coste, qualche decina di miglia marine più in là. Ma il progetto è ostacolato dagli ambientalisti e soprattutto dalla Regione guidata da Nichilismo Vendola,  che contro le trivelle ha già organizzato una manifestazione all’inizio del 2012. Per capire l’aria che tira, e non solo a Taranto, dove i giudici hanno deciso la chiusura dell’Ilva, l’unica grande fabbrica del Mezzogiorno, bastava leggere ieri l’intervista, sempre su Repubblica, a Ermete Realacci. Il santone dei verdi intruppato nel Pd da Walter Veltroni spiegava sulle pagine dell’organo ufficiale della sinistra chic che le trivelle sono una soluzione superata: «Ben vengano i rigassificatori». Peccato che proprio in Puglia si siano appena fatti scappare la British gas. Dopo aver atteso otto anni il permesso di iniziare i lavori, la multinazionale inglese ha deciso di dirottare altrove l’investimento previsto a Brindisi. Ufficialmente il governo non ha detto no. Sono gli enti locali che si sono opposti al piano, facendo slittare la decisione anno dopo anno. Alla fine, Regione, Provincia e Comune hanno ottenuto ciò che volevano. Ovvero non fare niente, l’unica specialità in cui l’Italia eccelle. Che poi è più o meno ciò che è accaduto a Taranto, con la più grande acciaieria d’Europa. Nessuno si è mai curato troppo di cosa uscisse dalle ciminiere. Nessuno si è preoccupato del quartiere cresciuto di fianco alla fabbrica. Poi, ecco svilupparsi la sensibilità ambientalista e con essa la determinazione di rottamare la fabbrica, vista come fonte di tutti mali. Ufficialmente nessuno dirà che l’Ilva deve morire. No, non sia mai. Le parole saranno sempre necessariamente ambigue, come quelle che  sa pronunciare il governatore della Puglia, il quale è per la difesa della salute, ma anche per la produzione. Nel frattempo non si schiera e lascia che l’acciaieria venga spenta, con quanto ne consegue, da un punto di vista economico e produttivo.  La verità pura e semplice è che se il Texas non è un Paese per vecchi, l’Italia non lo è per l’impresa. La burocrazia è arcaica, il mercato del lavoro ingessato, le norme impossibili da applicare in un sistema economico aperto. La colpa è in gran parte della politica: antimoderna e incapace di decidere, troppo presa com’è dalle clientele e dalla corruzione. Risultato: a Taranto, come in Basilicata, Sicilia, Calabria e Mar Adriatico, non si farà nulla. Continueremo a star seduti su un tesoro, aspettando che la Casta ci mandi in rovina. Ps. Notizie di ieri: il ministro Clini a proposito dell’Ilva parla di sistema industriale italiano a rischio nel caso passasse la logica giuridica applicata a Taranto; secondo l’Istat la produzione industriale è diminuita a giugno dell’8 per cento: il dato è il peggiore fra quello dei 27 Paesi della Ue; le tariffe pubbliche dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica in dieci anni sono cresciute rispettivamente del 69,8 per cento, del 56,7 e del 38,2. Tutto come previsto: il Paese seduto su 100 miliardi di petroeuro si avvia allegramente al disastro. Ovviamente, sotto l’occhio sobrio dei professori. Buon Ferragosto a tutti i lettori: segnalo che in attesa delle trivelle di Repubblica un litro di benzina, a forza di accise tecniche, è arrivato a costare quasi 2 euro. di Maurizio Belpietro