svolta anti-woke

Se le imprese dicono addio all'inclusione: la rivoluzione anti-woke firmata Trump

Sandro Iacometti

La rivoluzione anti-woke inizia a prendere forma. Da una parte c’è la vittoria di Donald Trump in tribunale, con la Corte d’appello che ha dichiarato legittimo l’azzeramento dei programmi federali Dei (diversity, equity, inclusion). Dall’altra ci sono le imprese che, visto il cambio di paradigma della Casa Bianca, non hanno perso tempo a liberarsi delle pastoie buoniste, eliminando dai bilanci ogni riferimento ai valori imposti dalla cultura liberal. Quella contro il pensiero woke è stata una delle battaglie principali condotta dal tycoon durante la campagna elettorale e uno dei primi atti dopo l’insediamento alla casa Bianca è stato proprio lo smantellamento fisico delle strutture federali a sostegno dell’ideologia tanto cara ai radical chic progressisti. L’ordine esecutivo che Trump ha firmato nel suo primo giorno da presidente ha imposto alle agenzie governative di mettere in congedo retribuito tutto il personale dell’ufficio Dei (Diversity, equity, and inclusion).

Un atto in perfetta continuità con il primo mandato, quando aveva vietato agli appaltatori delle agenzie federali e ai beneficiari di finanziamenti federali di condurre formazione anti-bias che affrontasse concetti come il razzismo sistemico. Provvedimenti, manco a dirlo, immediatamente ribaltati da Joe Biden. Ma anche una volta riconquistato il potere, gli ostacoli non sono mancati. Un giudice distrettuale di Baltimora ha infatti accolto un ricorso della città e di diverse associazioni, tra cui la National Association of Diversity Officers in Higher Education, l'American Association of University Professors e la Restaurant Opportunities Centers United, ritenendo che gli ordini esecutivi violini il primo emendamento sulla libertà di parola. Posizione contestata però venerdì scorso dalla Corte d’Appello, che ha rimosso il blocco degli ordini esecutivi giudicando illegittimo il blocco disposto dalla toga di Baltimora.

 

 

Ma più che la battaglia legale è interessante vedere gli effetti che il nuovo vento proveniente dall’amministrazione americana sta provocando nell’economia reale. Fossero istanze radicate nel mondo imprenditoriale, le aziende se ne sarebbero fregate degli ordini esecutivi di Trump e avrebbero proseguito sulla propria strada, continuano a prestare attenzione e a dedicare risorse ai progetti dedicati a sostenere i valori di equità, inclusione e rispetto della diversità. Invece, non appena annusata l’aria, le imprese non hanno esitato a cambiare drasticamente rotta. Centinaia di grandi aziende statunitensi hanno infatti repentinamente rimosso i riferimenti a “Diversità, equità e inclusione” dalle loro relazioni annuali. Secondo i dati di FactSet e i documenti aziendali analizzati dal Financial Times, più di 200 tra i maggiori gruppi americani hanno eliminato le menzioni di Dei e i termini correlati. Le statistiche non lasciano dubbi sulla voglia di cambiamento. Tra le prime 400 società dell'indice S&P 500, il 90% di quelle che hanno presentato una relazione annuale dopo l'elezione di Trump ha tagliato vari riferimenti alla Dei e molte hanno eliminato del tutto il termine.

I dati, che si riferiscono solo ai bilanci annuali delle società che si sono chiusi dopo l'elezione, sottolineano, scrive FT, la velocità e la portata dell'impatto della crociata di Trump contro quelli che ha definito «programmi di discriminazione illegali e immorali». Ma la realtà è che il presidente non ha imposto nulla alle aziende private, ha semplicemente suonato la campana del liberi tutti. E questo è l’effetto. Molte aziende hanno deciso di non tenere più conto delle statistiche che suddividono la loro forza lavoro per razza e hanno eliminato i riferimenti ai premi per le iniziative Dei o ai gruppi di affinità interni, come le reti per i professionisti afroamericani. Dati separati forniti dal sito di reclutamento Indeed mostrano che gli annunci di lavoro negli Stati Uniti con titoli legati alla Dei si sono dimezzati rispetto al picco raggiunto a metà del 2022, mentre alcune aziende hanno eliminato i programmi di diversità. E a dimostrazione del fatto che i decreti di Trump non siano il frutto di una battaglia ideologica, ma anzi il tentativo di deideologizzare la società e l’economia, seguendo una tendenza che ormai riguarda l’intero Occidente, vale la pena citare un recente studio realizzato da Gruppo Adecco sulle imprese secondo il quale in oltre la metà delle aziende italiane (54%) non sono presenti iniziative di Dei; in 3 consigli d'amministrazione su 4 (76%) non sono rappresentate le diversità; 1 manager su 10 (15%) non è informato sul tema o comunque non ha interesse in merito.

Per carità, la strada è lunga. Molte imprese, in Italia e nel mondo, ancora ritengono le “quote” destinate alle minoranze di qualunque tipo più importanti del merito e spendono palate di quattrini per ottenere da Ong e associazioni internazionali certificazioni di merito sulla parità di genere, l’inclusione, il rispetto della diversità e altre medaglie buoniste che vengono pubblicizzate con orgoglio più dei risultati di bilancio, la remunerazione ai soci e i dati sulla forza lavoro. Ma l’aria sta cambiando velocemente. E c’è solo da sperare che la inevitabile e prevedible reazione agli eccessi ideologici dell’ultimo decennio non travolga anche quello che c’era di buono nel predicare il rispetto di tutti i lavoratori, di qualunque colore o genere.