Conti in tasca

Stipendi? Ecco perché il vero grande scandalo sono gli statali: fuori tutte le cifre

Iuri Maria Prado

L'altro giorno il Corriere della Sera ha pubblicato un reportage di Milena Gabanelli sugli stipendi multimilionari di certi manager e capi d'azienda, con indignazione d'ordinanza nel paragone con il salario medio dei dipendenti comuni. Una specie di gossip delle retribuzioni spacciato per giornalismo d'inchiesta in piega di giustizia sociale, che denuncia l'oscena sperequazione tra quei diversi livelli retributivi.

 

 

Ora, il fatto che qualcuno guadagni milioni mentre altri non vedono quelle cifre nemmeno in una vita di lavoro può fare impressione: ma non si capisce quale sarebbe il rimedio per ricondurre a giustizia un simile squilibrio. Facciamo che il potere pubblico impone alle imprese di non pagare più di un tanto i dirigenti? Facciamo il calmiere nazionale delle buonuscite? Facciamo l'equo canone dei bonus?

 

 

Ma poi non si capisce per quale motivo mai si metta a confronto la pochezza dei salari comuni con la sontuosità di quelle retribuzioni effettivamente favolose, e non invece con la somma impressionante di sprechi, di prebende immeritate, di denaro buttato nelle fauci della belva pubblica: tutta roba che forma numeri ben più impressionanti. Fino a prova contraria mille sfaticati del carrozzone statale che arraffano uno stipendio pur mediocre costituiscono un motivo di ingiustizia sociale ben più imponente rispetto a quello rappresentato dall'emolumento di lusso del capo di una multinazionale. Con la differenza non da poco che uno è remunerato dall'impresa (tanto, d'accordo, tantissimo, ma sono fatti di quell'impresa), mentre gli altri li paghiamo noi.