Draghi rassicura Berlusconi
Etica, solidarietà, integrazione. È un Draghi nuovo quello che si è affacciato ieri al Meeting di Rimini. Che parla a braccio, che sorride e che coniuga parole, come ha detto lui stesso, «fino a poco tempo fa ignorate dagli economisti» e che ora sembrano diventate la pietra angolare del cambiamento, «il filo conduttore che lega tutte le riforme». E senza riforme il Paese non esce dalla crisi. Perché i «segnali di ripresa ci sono», «il peggio è passato» e si vedono «alcune rondini», ma per tornare al punto di partenza la strada è tortuosa. Certo, ammette il governatore di Bankitalia, molto è stato fatto. E la «risposta tempestiva dei governi e delle banche centrali ha permesso di evitare le conseguenza catastrofiche del ’29». L’Italia però era già malata. E si è portata dietro «un’eredità pesante fatta di bassa crescita e di scarsa competitività». Di qui la necessità del salto di qualità. Che non significa semplicemente aiutare le imprese, rilanciare i consumi e sistemare i conti pubblici, ma sciogliere i nodi strutturali che zavorrano il Paese. Ed è qui che Mario Draghi inizia a picchiare duro. Contro il sistema Italia in generale, ma anche contro bersagli ben più identificabili. La Lega in particolare, con la bocciatura delle gabbie salariali e delle politiche esclusive per l’immigrazione. Ma anche il governo e lo stesso Giulio Tremonti, stangando senza mezzi termini l’idea delle politiche per il Sud e della riedizione della cassa del Mezzogiorno e invocando un allargamento degli ammortizzatori sociali. Tutt’altra la ricetta del governatore, che individua tre priorità di intervento. La prima riguarda il capitale umano. Secondo Draghi è necessario procedere a una rivoluzione che introduca nel sistema scolastico robuste iniezioni di competitività, meritocrazia e meccanismi premianti. Il secondo punto riguarda il mercato del lavoro e la protezione sociale. Bene la flessibilità, dice il governatore, perché ci ha permesso di assorbire l’impatto della crisi, ma con la cassa integrazione non si va lontano. «Le tutele», spiega, «devono essere estese ai precari e a tutti i disoccupati che sono in cerca di lavoro», compresi gli immigrati, che «sono una risorsa e che vanno integrati». Quanto ai salari, basta chiacchiere sulle gabbie, tanto più che «gli stipendi reali non sono così diversi» tra Nord e Sud. Quello che invece è urgente è procedere in fretta verso il rafforzamento della contrattazione decentrata. Poi, il nodo dei nodi: la questione meridionale. Le divergenze esistono e sono forti, ma non è, secondo il governatore con la riedizione di vecchi strumenti che hanno fallito che si può pensare di uscirne. Come la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che «funzionava finché si limitava a finanziare infrastrutture». Quando si è messa a distribuire finanziamenti è incentivi «è invece diventata un fattore di sottosviluppo». Il problema, dice, è che al Sud i soldi arrivano già, solo che vengono spesi male. Dunque, «basterebbe applicare bene gli strumenti che già esistono». Stilettate in sequenza, quelle del governatore, sottolineate da applausi sempre più fragorosi. Al punto che Draghi, forse preoccupato di calcare troppo la mano, ha deciso di risparmiare l'ultimo affondo al governo. Nella bozza distribuita prima dell’intervento il numero uno di Bankitalia tornava a puntare il dito sulla riforma incompiuta delle pensioni, un macigno sulla strada della riduzione del debito. Dal palco di Cl il governatore si è limitato a lanciare un ben più innocuo allarme sulla finanza pubblica. L’avversario, del resto, era già ko. Sandro Iacometti su Libero