Lo spauracchio
Pensioni, buco da 2 miliardi: crollo delle entrate contributive
Ci avevano raccontato - non più tardi dell’8 ottobre scorso - che la scandolosa storia degli esodati era saldata e conclusa per la ragguardevole cifra di 10,4 miliardi. E invece, giusto ieri, l’aula del Senato ha dato il via libera definitivo al decreto Imu-Cig-esodati (175 sì, 55 no e 17 astenuti). Cosa c’entri l’abolizione dell’Imu con i 600 milioni per assegnare la (sacrosanta) pensione ad altri 6.500 esodati, vale a dire a quelli dei licenziati individuali, è un mistero. C’è di buono che con questo provvedimento i lavoratori che all’entrata in vigore della riforma Fornero erano in congedo per assistere familiari malati, potranno almeno andare in pensione con i vecchi requisiti, ma si tratta di una pattuglia di appena 2.500 casi particolarissimi. Ciò che stupisce è che a due anni dall’approvazione dalla legge Fornero - e dal pasticcio riconosciuto sugli esodati - briciola dopo briciola, si cerca di riempire il piatto delle dimenticanze. Il conto ha ormai superato i 10 miliardi. E non è affatto detto che la lista della spesa possa chiudersi così. Tanto più che il sistema a ripartizione si basa su delle premesse errate che, per leggerezza o specifica volontà politica, non tiene conto che il mondo è cambiato e cambierà ancora. A cominciare da quello del lavoro. La premessa delle 13 riforme e riformine che si sono susseguite negli ultimi 18 anni è che il lavoratore trovi un occupazione e che la mantenga per 35-40 anni. Peccato che di mezzo ci sia stato il crollo verticale dell’occupazione, che i senza lavoro siano oggi arrivati complessivamente a quasi 6 milioni (tra disoccupati, inoccupati, cassintegrati e ammmortizzati). Insomma, come dimostra il periodico bollettino delle entrate dello Stato le rimesse contributive calano (dell’1,6%). Tra gennaio e agosto, infatti, la somma delle entrate contributive (Inps, Inail e gli altri enti privatizzati), sono diminuite complessivamente dell’1,6%. In soldoni il mancato incasso per questi primi 8 mesi dell’anno è stato complessivamente di 2,238 miliardi. Il meccanismo è semplice. Se da un lato lo Stato ripiana la gestione Inps con rimesse poderose, prima o poi si arriverà ad un punto in cui non si potrà più tappare la falla. L’intervento della Legge di stabilità triennale - che congela l’adeguamento futuro al costo della vita delle 15 milioni di pensioni già in pagamento - vale da solo 4,1 miliardi di risparmi. Risparmi che però si fanno sulla pelle (e il portafoglio) di pensionati che portano a casa non assegni da nababbo ma delle normalissime pensioni (sotto i 2.500 euro al mese quando va bene), rese ancora più leggere dall’inasprimento delle tasse sulla case, delle addizionali locali, di quelle sui servizi e anche dalla perdita di alcune detrazioni che sono giusto dietro l’angolo. L’analisi delle criticità dell’attuale (e futuro) sistema pensionistico - realizzata per punti dal professor Mauro Marè, titolare della cattedra di Scienza delle finanze de La Sapienza può apparire interessata. Forse perché Marè, grande esperto di affari pensionistici è anche il presidente di Mefop (la Società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione). Però, oltre a sollecitare una diversificazione del «rischio pensionistico» - con l’adozione di nuovi sistemi di accantonamento - Marè nel suo editoriale, pubblicato ieri su Il Sole 24 Ore, ha il dono della chiarezza. Il sistema pensionistico che conosciamo oggi non potrà esserci in futuro. Perché non regge. E quindi è bene attrezzarsi per tempo. di Antonio Castro