I tuoi risparmi

Tfr, perché non lasciarlo in azienda: ecco quanti soldi perdi

Davide Locano

La previdenza integrativa proprio non interessa agli italiani. Solo 7,6 milioni di lavoratori (su 25 milioni), hanno aderito ad un piano previdenziale integrativo. La stragrande maggioranza dei lavoratori resta lontana da qualsiasi forma di investimento ulteriore per rendere l’età della pensione più stabile finanziariamente. Non servono a nulla i poderosi incentivi fiscali (fino a 5.164 euro l’anno di reddito deducibile), e neppure la tassazione di favore accordata in fase di erogazione a chi si iscrive. E neppure gli interessanti rendimenti. L’italiano preferisce mantenere i quattrini del trattamento di fine rapporto (Tfr), in azienda, nonostante gli interessi si siano quasi dimezzati negli ultimi 10 anni. La tradizionale Relazione della Commissione di vigilanza sulla previdenza (Covip), offre uno spaccato interessante (e preoccupante) dello stato economico del Paese, non solo della scarsa cultura previdenziale degli italiani. Ai lavoratori di casa nostra non risultano attrattivi neanche i contributi aggiuntivi da parte del datore di lavoro. Preferiscono, evidentemente, avere “a disposizione” il Tfr accumulato e tenerlo in azienda. Leggi anche: Ennio Doris: "Perché le banche hanno sbagliato tutto" BASSI INTERESSI I rendimenti dei capitali investiti in forme di previdenza (complessivamente 162,3 miliardi di euro, oltre 14 miliardi solo nell’ultimo anno), nonostante i bassi tassi di interesse, hanno ampiamente superato l’inflazione. I fondi di categoria o negoziali, nel 2017, hanno reso in media il 3,3% netto, quelli aperti il 3 e i Pip, i piani di investimento previdenziali, il 2,8. Se è vero che i fondi di categoria possono vantare uno costo di gestione assai più contenuto (in media lo 0,4%), i Pip evidenziano ancora oneri pari al 2,2% (3,3% per quelli agganciati a unit linked), contro l’1,3% dei fondi aperti. Insomma, buon senso vorrebbe che i lavoratori dirottassero il proprio salario differito (come è il Tfr) sui fondi, su quello di categoria tanto meglio visti costi e rendimenti. Spesso i contratti di categoria prevedono anche un contributo aggiuntivo (in media dell’1%), per chi sceglie di aderire e contribuire con almeno l’1% della propria retribuzione lorda. Ma neppure l’incentivo datoriale, né lo sconto fiscale sembrano funzionare. Anzi. Nell’ultimo anno, se è vero che sono aumentate le iscrizioni, è altrettanto vero che è lievitata la platea di chi non versa più. Sono oltre 1,8 milioni gli iscritti alla previdenza complementare che nel 2017 non hanno effettuato versamenti, vale a dire il 23,5%. Un pessimo segnale: vuol dire che il messaggio previdenziale (pensioni più tardi e più “leggere”), non solo non è passato ma che quasi un quarto dei lavoratori italiani non può permettersi di rinunciare nemmeno a 50/100 euro in busta paga. Non a caso il presidente della Covip, Mario Padula, ha indicato al nuovo Parlamento la strada per incentivare adesioni e versamenti: ovvero rivedere «la possibilità di riportare ad anni d’imposta successivi i benefici che non sono stati utilizzati». Opzione che potrebbe trasformarsi in vantaggio sia per i giovani che per quanti siano in prossimità dell’età pensionabile. Magari il nuovo ministro dell’Economia, Giovanni Tria, potrà includere anche il risparmio previdenziale tra quelli che, giusto ieri, ha promesso all’Acri (l’Associazione casse di Risparmio), di proteggere. di Antonio Castro