L'intervista di Pietro Senaldi
Parla il prossimo "mister Confindustria": "Salotti addio, così salveremo l'Italia"
Com’è andata? «Come agli esami, non lo sai, provi solo sensazioni. Le mie sono positive». Ma chi glielo fa fare? «È la domanda che mi pone mia moglie tutte le mattine, io di solito me la faccio di sera. Ho 52 anni, ho maturato la giusta esperienza e senza presunzione penso di aver qualcosa da dire, è il momento giusto». Siamo all’anno zero, gli industriali non hanno più scuse... «Questo è vero. Con il nuovo TLTRO di Draghi, teoricamente sarà facile ottenere finanziamenti, visto che le banche riceveranno dalla Bce lo 0,40% su ogni euro prestato alle imprese. È una sorta di piano Marshall per far ripartire l’Europa, anche se poi il problema come al solito sarà dare i soldi a chi ne ha bisogno e ha i progetti giusti. Ma le banche non saranno più le principali fonti di finanziamento. Il futuro è di corporate bond e fondi internazionali: le aziende devono costruire un modello credibile che dia garanzie a questi nuovi investitori». Se si candida significa che Confindustria non le garba? «È inutile guardare indietro. Sono presidente degli industriali bolognesi, vivo questo mondo da dentro. Una delle mission del mio mandato sarà ricostruire lo spirito d’identità della categoria. Gli industriali devono ritrovare l’orgoglio che avevano negli anni Sessanta e l’associazione deve essere in prima linea nella promozione dell’immagine di chi fa impresa. Bisogna esaltarne l’utilità sociale, in questo Paese perdura un pregiudizio ideologico negativo nei confronti degli industriali». Alberto Vacchi arriva a Libero da via dell’Astronomia, dove ha appena presentato il programma per Confindustria. Sostenibilità, ricerca, attrattività, digitalizzazione, innovazione, comunicazione, contratti legati alla competitività, sono le parole chiave. Con diverso garbo, si potrebbe definire un rottamatore in pectore. Ma il piatto forte è il curriculum del candidato presidente: da che l’ha ereditata dal padre, la sua IMA, specializzata nelle macchine per fare packaging, è passata da 60 milioni a un miliardo di fatturato. In due anni le azioni sono salite da 13 a 49 euro, è titolare di 1400 brevetti, le sue macchine producono una bustina su due di tutto il thé che si consuma nel mondo, controlla 27 società, un anno fa ha acquistato 5 aziende in Germania. E nella classifica dei 50 amministratori più performanti d’Italia, Vacchi si è piazzato secondo, dietro a Marchionne… Riuscirà a riportare Fca in Confindustria? «Credo sia importante provarci». La crisi è finita? «Sì, fisiologicamente direi. Ma la deflazione ce la tireremo dietro a lungo. Dobbiamo abituarci a uno scenario giapponese, di stagnazione, non vedo all’orizzonte una crescita boom, il modello economico è cambiato». Non ci sono più i salotti buoni? «Il mio modello industriale prescinde dai salotti. Credo nella filiera: gran parte del successo di IMA è dovuto alla capacità di fare squadra con le altre aziende legate al processo produttivo e di presentarsi sul mercato e agli investitori quasi come un corpo unico. La nuova Confindustria deve integrare il sistema produttivo, spingere sui distretti, valorizzare l’esistente, far lavorare assieme le imprese grandi e piccole, consolidare i rapporti, dare a ogni settore una scatola degli attrezzi per creare un modello vincente». Di Confindustria si dice che difende solo i grandi… «Nel nuovo mercato non esiste più una differenza di interessi tra grandi e piccoli: tutti i problemi della grande impresa si riversano su quella piccola e viceversa. Si vince insieme». Non è solo uno slogan elettorale? «No, è la storia della mia vita. Non è cresciuta solo IMA: le aziende della mia filiera sono cresciute tutte. Il modello è semplice: si programma, si investe, si contratta e si qualificano le professionalità insieme. E così si abbattono i costi: siamo anche riusciti a riportare alcune produzioni in Italia, risparmiandoci. Questo sarà uno degli obiettivi del mio mandato: riportare il lavoro manifatturiero in Italia». La sua categoria rimprovera sempre al governo di non avere una politica industriale… «E chi se ne importa? La politica industriale la deve fare Confindustria, a ognuno il suo lavoro. Noi, mettendo al bando ogni ideologia e pensando solo al prodotto, dobbiamo tracciare le linee guida per la ripartenza e presentarle alle istituzioni. Al governo poi toccherà scegliere, ma attenti a non confondere i ruoli». Dicono che sia renziano... «Ha dimenticato montezemoliano, prodiano e landiniano. Ho con tutti rapporti buoni e indipendenti. Ripeto,non sono ideologico, punto alla netta separazione tra politica e industria». Ma molti suoi elettori sono aziende partecipate dallo Stato… «Non mi sembra che si presentino al voto con una linea comune. Le partecipate avranno, con le altre realtà industriali, il loro ruolo, importante, nell’advisory board che programmerà la politica industriale sui territori». Vuole una gestione centralista? «Niente affatto. In questi anni mi sono reso conto che il disamore verso Confindustria è in gran parte dovuto alla sensazione di molti associati di essere abbandonati al proprio destino. Non è necessario moltiplicare gli uffici e i servizi sul territorio, gonfiando i costi. Meglio sviluppare le eccellenze e investire in qualità: si può essere leggeri come struttura ma arrivare ovunque, basta che funzionino digitalizzazione e comunicazione». Diciamolo, come industriali i figli non sono all’altezza dei padri: la generazione dei 40enni ha fallito… «Il contesto non li ha aiutati. Eravamo abituati a una crescita senza limiti e senza accorgercene siamo passati a un modello in cui la finanza contava più dell’economia reale. Ora è finito, male, anche quel periodo». E che stagione stiamo vivendo? «Quella in cui contano investimenti, preparazione, programmazione e qualità. Chiedo aiuto alla politica soprattutto per quanto riguarda la formazione e il marketing. Sì agli stage in azienda ma soprattutto alle scuole tecniche, che insegnano un lavoro dal quale può nascere un imprenditore. La politica e i media sono fondamentali per veicolare questo messaggio». È ottimista per il futuro? «Sì, perché l’imprenditoria italiana conserva un quid in più. Nella creatività, nella capacità di affrontare situazioni critiche e nell’autorganizzazione. Lavoro con i tedeschi e le garantisco che sono indietro rispetto a noi su questo, come del resto tutti gli altri». E allora come mai sono invece così avanti in economia? «Perché hanno fatto sistema: Stato, banche, aziende, sindacati hanno remato tutti nella stessa direzione per recuperare capacità industriale e reggere la sfida con mercati brutali come quelli del Far East. Noi invece ci siamo persi in scontri politici e ideologici». Non è stato l’euro ad affossarci? «Ci ha fatto male ma non è un discorso attuale. Senza, adesso staremmo peggio». Renzi ha asfaltato i sindacati: vi ha fatto un favore? «I sindacati sono importanti ma devono adeguare il loro ruolo. Capisco la difesa dei posti di lavoro, ma nell’interesse di tutti, il contratto deve avere al centro competitività e produttività. Lo schema è: concessioni su flessibilità e organizzazione del lavoro in cambio di soldi e più attenzione alle singole realtà industriali». È la fine del contratto nazionale? «Sono molto vicino al modello Storchi: il contratto nazionale dà le linee guida, i minimi, gli orari, lo scheletro del rapporto di lavoro. Ma di soldi veri si parla in azienda, e vanno legati ai risultati». E il Welfare? «Anche qui il modello Storchi indica una strada apprezzabile. Siccome lo Stato sarà sempre meno in grado di garantire il Welfare, le prestazioni assistenziali e previdenziali potrebbero trovare spazi di regolamentazione nel contratto nazionale. I sindacati potrebbero trovare qui una nuova ragione d’esistenza». Con l’addio agli ammortizzatori sociali? «Con un loro ripensamento: devono essere davvero limitati nel tempo e fortemente orientati a una riqualificazione del lavoratore, per ricollocarlo in settori che tirano. Come previsto dalla parte del Jobs Act non ancora attuata». È la flessibilità in uscita sulle pensioni per far lavorare i giovani? «È da discutere. Un ponte generazionale che favorisca i giovani in entrata e una flessibilità in uscita dei futuri pensionandi è un percorso corretto». Il 31 marzo ci sono le elezioni. Dicono che è in vantaggio: vince lei? «Non rispondo, scaramanzia...». Il voto è segreto: non teme qualche coltellata? «Sì, ma fa parte del gioco». Da presidente di Confindustria diventerebbe uno dei più importanti editori italiani… «Non ho ancora aperto la pratica Sole 24Ore. Posso smentire qualsiasi voce di fusione con il Corriere e dire che l’opera di riportare i conti in equilibrio va proseguita con decisione». Ma il giornale le piace? «È importante che in futuro, nel rispetto della massima libertà di linea editoriale, il giornale privilegi di più il mondo delle imprese e contribuisca a migliorarne l’immagine pubblica». Il suo rivale Boccia stampa Repubblica e Stampa, che si sono fuse e in molti gridano alla concentrazione di potere: la trattano bene? «Anche in campagna elettorale, come nel caso di un mio eventuale mandato, preferirei stare al di fuori da queste beghe politiche». Fuor di politica, confessi, si candida per diventare più famoso di suo cugino Gianluca, star dei social? «Questa è bella. Siamo molto legati, ma abbiamo modalità d’espressione diverse. Io amo il basso profilo, lui è decisamente più trendy». Sverna a Miami e fa baldoria con Vieri mentre lei lavora come un matto: chi dei due ha capito la vita? «Tutti e due, o forse nessuno. Ma mio cugino è anche un imprenditore dotato di quella grande creatività italiana a cui facevo riferimento prima». Lei è il re mondiale delle bustine thé: quanto ne beve? «Proprio parecchie». intervista di Pietro Senaldi @PSenaldi