L'anima degli imprenditori
"Il futuro è nel passato": gustate le perle di saggezza di Giacomo Bulleri
Giacomo Bulleri, classe 1925, nasce a Collodi, come Pinocchio. La lascia per diventare cuoco a Torino e poi nel 1958 lascia Torino per Milano. Nel ristorante accanto alla Camera del Lavoro meneghina ospita per decenni buongustai vip d’ogni branca. Lo chiude e la sua nuova meta è la costruzione d’una vittoria imprenditoriale assai più grande della precedente. Accanto al ristorante Da Giacomo in via Sottocorno, infatti, negli anni apre il Bistrot. Poi, sul marciapiede di fronte, la spettacolare Pasticceria e la Tabaccheria, un emporio bar dove, oltre a mangiare come in un bacaro, si possono acquistare tabacchi, salumi al taglio, formaggi, vini, pane appena sfornato e soprattutto la sua linea alimentare creata setacciando eccellenze, silenziose come lui, tra i piccoli produttori di tutta Italia. Giacomo è cucina a 360 gradi, e la quercia sempre giovane della ristorazione tradizionale. Coi suoi locali pronti a soddisfare ogni declinazione possibile dell’«Andiamo a mangiar fuori», ha anticipato la tendenza - ora diffusissima, ma farlo dopo i pionieri è facile - della differenziazione dell’offerta. Nonché quella della produzione alimentare creata per il e commercializzata dal cuoco. La Tabaccheria è l’ultima tappa (attenzione: ultima finora) del viaggio professionale di un cuoco che si è misurato con ogni concezione immaginabile di fornitura del cibo al cliente, è «Giacomo da portarsi a casa». In vendita, orgogliosamente, gli stessi prodotti usati nei suoi ristoranti. Presto - sta mettendo a punto l’acquisto on line - chiunque potrà averli anche fuori Milano per mangiare secondo il gusto di Giacomo. Abbiamo scritto «ristoranti» qualche riga più su. Perché c’è anche Giacomo Arengario, sopra il Museo del Novecento. Ci hanno mangiato anche gli Obama e Russell Crowe. Da Giacomo in Via Sottocorno, invece, le presenze più recenti sono state «quisquilie» come Checco Zalone o i Duran Duran. Dimenticavamo: c’è anche Giacomo Caffè a Palazzo Reale. A Giacomo è stato conferito l’Ambrogino d’Oro, e le sue «ricette di vita» oltre che di cucina sono state raccolte in un omonimo e incantevole (leggetelo) libro per i tipi di Bompiani (tradotto anche in inglese). Oltre mille i lavoratori cresciuti sotto di lui, eccezionale la sua passione. Giacomo, in via Sottocorno lei ha realizzato un accumulo di proprietà degno di un ottimo giocatore di Monopoli o Risiko. «Di casinò. Io sono un giocatore di casinò, a me piace il rischio». Eh, l’ho capito! «In amore, nella vita, nel lavoro, nel gioco... Se non rischi, non puoi vincere». Ricorda Donald Trump quando, nei suoi libri di automotivazione, consiglia di pensare in grande e poi di adoperarsi per realizzarlo. Lei ha fatto questo? «Sì. Da quando sono nato. È un dna. Ci vuole un cervello un po’ allegro, solare...». Vitale? «Sì. “Oggi è oggi, domani è un altro giorno”». I giovani di oggi hanno questo cervello? «In pochi. Noi una volta dovevamo proiettarci nel futuro anche perché nel presente non c’era niente. Quando sono nato io c’era qualche bicicletta. Adesso si studia per vent’anni, poi non si trova lavoro...». Consiglia di portare avanti idee imprenditoriali come ha fatto lei? «Invece di aspirare a un posto fisso, si può inventare qualcosa con la propria testa. Come ho fatto io. Sono nato in un paese di campagna, molto bello. Ma non c’erano prospettive. Ho detto, già da ragazzo: “Qui... Devo andar via” e sono andato a Torino». Che poi ha lasciato per Milano. «Vedevo Milano, la Signora... Più anziana, più grande, che aveva delle prospettive diverse. Torino è, era bella. Ma a un certo punto mi stava stretta. E sono partito». Come un giocatore che si voleva misurare con avversari più difficili e poste più grandi? «Sì... Io ho rischiato nella vita. Ho anche perduto, eh... Non tutte le volte va bene». Cosa ha perduto? «Denaro a non finire». Però il bilancio è complessivo... «Sì, si fa alla fine. Però ho anche perduto». Quando è accaduto, cosa si è detto per ripartire? «Ho detto: “Domani mi rifaccio”. Non mi sono perso. L’unica fortuna che ho avuto è stata una donna al fianco che non mi ha fatto mai pesare niente di questa vita avventurosa, senza pensare ai rischi. Sono uno che dice che se va male, si rifà. Chi non rischia è perché quando è arrivato si accontenta. Oppure ha paura di perdere». Che consiglio dà ai giovani imprenditori? «Avere un’idea e andare avanti senza paura di rischiare un po’. Se rischi e vai avanti sarai premiato. Io sono stato premiato». Perché non vuol essere chiamato «chef», lei che è così pregno di sapienza gastronomica ed esistenziale? «Io non sono chef. Io sono nato cuoco». Nel suo libro scrive che il cibo è l’unica arte che si mangia. Mi pare che, come accade all’arte, il cibo oggi sia sottoposto a una parabola di decostruzione. Carbonare scomposte, milanesi destrutturate. Lei invece continua l’arte del cibo secondo la tradizione. «Non si deve uscire dalla tradizione. La terra dà un gusto che si deve mantenere cucinando. E non camuffare, come fanno tanti oggi». Mi incuriosisce sapere come lei, cultore assoluto di un buon gusto tradizionale, vede, per esempio, la cucina molecolare. «Sono esperimenti. Anche televisivi. Quella è televisione, non è cibo da mangiare». Ma nei loro ristoranti quegli chef servono quel cibo! «Ma quanti ce ne sono di quei ristoranti?». Touchée. Però la tendenza è quella di imitare questi chef anziché quelli tradizionalisti. «Il futuro è rimanere nel passato. Il futuro è il passato, se lo ricordi. Soprattutto nella cucina. I ristoranti di grande successo sono quelli coi cibi di una volta. Ci sono due cucine. Una televisiva, una per mangiare. Quei piatti così lavorati, con le foglioline, non sono da mangiare: è un peccato mangiarli per quanto sono lavorati». Dovremmo appenderli nei musei come se fossero quadri e guardarli? «Sì». Qualcuno le ha mai detto: «Basta Giacomo con questa tradizione. Preparami qualcosa di bizzarro, all’ultima moda»? «No. Mai. Mai. Ho avuto sempre clienti che hanno adorato la mia cucina. Sono ancora qui a lavorare il capretto. Quando lo faccio arrosto impazziscono. La clientela ha lasciato la carne, oggi si preferisce il pesce. C’è stato un ventennio in cui tutti mangiavano la carne. Chi mangia più la bistecca oggi?». Beh, ci fanno anche sentire in colpa se la mangiamo... Però la si sta riscoprendo. Anche la cacciagione. Molti chef contemporanei la amano. «Non in televisione. Io facevo venire la selvaggina dalla Scozia». Beh, in tv non ci fanno vedere come si fa un brodo di piccione, però le persone stanno ricominciando ad apprezzare il gusto della tradizione. «Sì, ma non ritornerà mai come prima. Però la cucina di una volta era capriolo, cinghiale, cervo... Ora siamo arrivati al pesce. Dopo il pesce non so cosa c’è». Credo ci sarà il tofu, la proteina dei vegetariani... Lei, però, resiste. In Tabaccheria vende affettati al taglio, salame, mortadella, pastrami. I suoi prodotti a marchio Giacomo sono una barricata della tradizione. Caviale, marmellate. O gli splendidi barattoli di pomodori pelati, dove si intravedono anche i semi, in barba allo snobismo estetico contemporaneo per cui non si sopporta nemmeno la buccia di una mela. «È una piccola cosa». Però la fa. «È un mondo passato». Quello che lei ha detto essere il futuro, Giacomo. La sua Tabaccheria ricorda una di quelle botteghe del passato che vendevano tutto, dove l’odore del pane si confondeva con quello dei detersivi. «Sì, brava. Vendevano tutto. Pasta, farina, carne, attrezzi per l’agricoltura». Gemma Gaetani