Verso la fine dell'embargo
Cuba, la gare per investire ai Caraibi: 400mila opportunità per fare i soldi al caldo
Ma quanto è difficile fare pace. Barack Obama, con una decisione storica, ha riaperto la porta a rum e sigari dell’ex nemico, che i turisti a stelle e strisce potranno importare d’ora in poi fino a cento dollari a persona. Ma ad accogliere “Havana Club” e “Cohiba” sul suolo americano ci saranno anche legioni di avvocati. Difficile immaginare un contenzioso legale più complesso di quello che oppone la famiglia Bacardi, che ha rilevato i diritti dai vecchi proprietari, con la francese Pernod Ricard, che nel 1992 ha siglato con Fidel il contratto per la commercializzazione del rum oltre confine. Nel 2012 la Corte Suprema ha dato ragione ai Bacardi. Ora, però, i giochi si riaprono: il colosso francese ha già annunciato di voler inondare gli Usa di milioni di bottiglie di Havanistas, nuovo marchio approvato da Cuba. Non meno aspra si annuncia la battaglia attorno al Cohiba, il prestigioso sigaro della perla dei Caraibi, amato da Fidel e immortalato dalle foto di Che Guevara. Gli Usa ne diventeranno i primi compratori, scavalcando la Spagna che ne ha comprati, quest’anno, per 79 milioni di dollari. Ma anche qui si profila un vespaio di liti giudiziarie sulla proprietà dei marchi tra General Tobacco, che ha comprato i diritti dai vecchi proprietari, e Cubatabalera, il monopolio di Stato. NUOVA STAGIONE Sigari e rum sono una chiave per cercar di interpretare la stagione che si è aperta il 17 dicembre, con la clamorosa decisione di Barack Obama di dichiarar chiusa la stagione dell’embargo verso Cuba decretato da John Kennedy nell’ottobre del 1962. In realtà, solo il Congresso degli Stati Uniti ha il potere di cancellare l’embargo, cosa che avverrà, con ogni probabilità, solo dopo le prossime presidenziali. Lo stesso Obama ha previsto che la decisione verrà presa nel 2017. Ma nel frattempo si è aperta una fase “grigia”, di apertura graduale. L’ideale per fare gli affari migliori, prima che si creino nuovi equilibri. Le aperture di Washington, dall’uso delle carte di credito alle reti di telecomunicazioni, sono comunque già sufficienti ad innescare un processo irreversibile, comunque rapido. Ma che succederà nei prossimi due anni? Vediamo le potenzialità. Oggi Cuba, 11 milioni di abitanti, è una piccola economia che figura al 108° posto nella classifica del commercio mondiale. Un paese povero (reddito medio 6.041 dollari, a metà del Brasile), ma con alcune eccellenze, a partire dalla Sanità che proprio in questi mesi, con una eccellente rete di aiuti all’Africa occidentale colpita da Ebola, ha confermato la sua qualità. L’import/export non supera i 400 milioni di dollari, per lo più in agricoltura, con legami stretti con Cina e Spagna ma, soprattutto, con il Venezuela che ogni anno cede 115.000 barili di petrolio in cambio delle prestazioni di 30.000 medici cubani “imprestati” a Caracas. Ma, secondo i calcoli del Fmi, le potenzialità dell’isola sono ben diverse: senza l’embargo, l’import di Cuba dagli Usa sarebbe stato di almeno 4,3 miliardi, meno dell’export di beni e servizi (turismo in particolare) che dovrebbe raggiungere almeno i 5,8 miliardi di dollari. Fin qui i numeri che, si sa, raccontano solo una parte della realtà. Prima di raggiungere certi obiettivi, infatti, saranno necessarie tante riforme. Non solo quelle legate alle conseguenze delle guerriglie commerciali e giuridiche che anche si combattono attorno a rum, sigari o ai vecchi monumenti del turismo che fu, ai tempi dei gangsters. La vera sfida riguarda la trasformazione della vecchia economia statalista, cresciuta attorno al regime. Una trasformazione che, seppur favorita dalle aperture all’economia privata promosse da Raùl Castro, segna il passo, come conferma la crescita modesta del pil, solo l’1,4%, nonostante l’esplosione dei cuentapropistas: 440 mila artigiani, affittacamere, tassisti, proprietari di paladar. I ristoranti privati dove si trovano le aragoste migliori. LA STORIA Locali come quelli di Miriam, un’ex donna di casa che ha scoperto la possibilità di far fortuna con il cibo guardando le telenovela brasiliane: oggi ha trasformato il cortile di casa in un locale da 30-40 coperti, conta otto dipendenti, vanta una efficiente rete di fornitori privati perché le è vietato approvvigionarsi all’ingrosso, visto che per lo Stato la sua azienda ufficialmente non esiste. Poco male, visto che buona parte delle provviste che acquista sono frutto di furti alle aziende pubbliche. La storia di Miriam, al pari di quella di Pablito, parrucchiere della veccha Habana che si è messo in proprio all’inizio del millennio e oggi conta 14 lavoranti, piuttosto che di Willem, che governa una cooperativa di taxi costituito da vecchie Cadillac anni Cinquanta, offre un quadro di quel che potrebbe accadere di qui al 2017. Grazie alle nuove aperture del regime, i cuentapropistas saranno i primi a trarre vantaggio dall’arrivo dei capitali: d’ora in poi, infatti, le rimesse dagli Usa potranno raggiungere i 2 mila dollari (contro gli attuali 500). Parenti ed amici di Miami, perciò, potranno fornire i capitali sufficienti per garantire il decollo del turismo from Usa, che garantiva tre milioni di arrivi all’anno prima dello strappo con Fidel. PORTO FRANCO Ma c’è anche l’aspetto negativo. Da tre anni Cuba ha un porto franco, Mariel, attraverso cui dovevano svilupparsi le joint ventures con le economie europee ed asiatiche. In realtà, il bilancio è pari a zero; troppa burocrazia, anzi troppa ostilità delle strutture pubbliche verso l’iniziativa privata. Oltre all’inesistenza di tutele della proprietà privata (vietata ai cuentapropistas), o contratti di lavoro che prevedano incentivi per la forza lavoro. Riuscirà Cuba, di qui al 2017, a creare le premesse per accogliere nuovi investimenti? Oppure, come è successo in Russia, la nomenklatura riuscirà prima ad impadronirsi a prezzi stracciati dei beni pubblici, trasformando lo Stato in un’oligarchia? Molto dipenderà dalla saggezza con cui verrà gestita la fase di transizione in cui non mancheranno occasioni per i più arditi. In questa fase, ad esempio, un italiano può investire in un’iniziativa turistica (cosa che, ufficialmente, non può fare un cubano), e garantire al futuro investitore Usa quel know how del posto che potrebbe fare la differenza. Assieme ad un bel magazzino di Cohiba, oggi l’anima del “mercato nero” del made in Cuba. di Ugo Bertone