La resa dei conti
Tfr in busta paga: rischio boomerang
La liquidazione in busta paga? La trovata di Matteo Renzi (riproposta domenica a “Che tempo che fa” dopo essere stata smentita dal Tesoro dopo lo scoop del Sole 24 Ore), per infilare qualche soldino in più in busta paga rischia di diventare un boomerang micidiale: per lo Stato, per le imprese, per gli stessi lavoratori di oggi (pensionati di domani). L’uovo di Colombo dei renziani (dopo gli 80 euro di bonus per chi guadagna meno di 26mila euro lordi l’anno), ha delle controindicazioni immediate e a lungo periodo. Pier Carlo padoan, parlando ieri della Nota di aggiornamento al Def, ha ammesso solo che «è un argomento in dicussione». Ma nulla di più. Cicale e formiche - Eppure Renzi vorrebbe - anticipando il 50% del Trattamento di fine rapporto (per gli statali Tfs, Trattamento di fine servizio) - aumentare già da gennaio i salari disponibili. Intento meritorio anche per rilanciare i consumi e iniettare circa 12 miliardi nell’economia nazionale. Secondo i calcoli degli economisti de lavoce.info (che già nel 2011 bocciarono l’idea di Tremonti), ogni anno i lavoratori italiani accumulano 26,9 miliardi in salario differito. Sostanzialmente la vecchia liquidazione non è altro che una fetta della retribuzione accumulata dalle imprese (o dallo Stato), che viene messa da parte. Anticipare in busta paga mensilmente la metà porterebbe circa il 4% in più (lordo) alla retribuzione mensile. In soldoni (stipendio di 1.500 euro lordi) si tratta di un aggiunta di 55 euro al mese. Ma Renzi, ottimista, parla di 100 euro in più da aggiungere agli 80 del bonus. Magari per i redditi oltre i 3mila lordo. Tralasciando i rischi di vedere lievitare anche le tasse (più reddito, più imposte: se si è vicini a 26mila euro lordi il bonus scomparirà?), c’è da attendere e capire come verrà attuato il proposito. E poi oggi il Tfr è tassato in maniera agevolata (in media dal 23 al 28%). Ma se concorrerà al reddito, il 50% anticipato pagherà l’aliquota di fascia? Mistero. La pensione evapora - Governi, esperti di previdenza, analisti attuariali da decenni ci martellano: “pensa oggi al tuo futuro”. In sostanza: la pensione accumulata (primo pilastro) - con il contributivo - non basterà a garantire lo stesso reddito. Il generoso sistema retributivo garantiva una maggiorazione del 30% rispetto a capitale e rendimenti accumulati. Ma a coprire la differenza ci pensava lo Stato. Dalla riforma Dini (1995), ai lavoratori è stato applicato il meno generoso sistema contributivo: che si basa sugli effettivi versamenti, sugli interessi e su un micragnoso tasso di rivalutazione (ridotto con la riforma Fornero), agganciato alle aspettative di vita. Da questa decurtazione della pensione futura deriva la campagna che invita a costruirsi un secondo pilastro: la previdenza integrativa o complementare, appunto. E per rendere più appetibile questo salvadanaio pensionistico si è concesso una tassazione di favore (all’11%, ma può scendere dello 0,30% l’anno per ogni 12 mesi di adesione fino ad un minimo del 9%). In sintesi: il lavoratore accumula in un fondo (di categoria o privato, bancario, assicurativo), mensilmente una parte dello stipendio (a 1 euro al 12% della retribuzione). Per il sacrificio il fisco gli riconosce una deducibilità dal reddito fino a 5.164,57 euro. Insomma, questi soldi se vengono accumulati (corrispondono ai vecchi 10 milioni di lire), non concorrono ad alzare il reddito e quindi non ci si pagano le tasse. A spanne destinando ad un fondo i 5.164 euro si risparmiano circa 1.800 euro l’anno di imposte. Peccato che gli italiani (complice anche una classe politica timorosa della rivolta sociale), per decenni non abbiano avuto consapevolezza di quanto prenderanno di pensione. La famosa “busta arancione” (la scheda personale su versamenti, rendimenti e potenziale assegno una volta a riposo), sempre annunciata, non è mai stata recapitata ad alcuno. Meglio oggi non far sapere che avremo trattamenti intorno al 50-55% degli attuali salari. Morale: solo il 25% degli italiani hanno sottoscritto piani di accumulo, fondi integrativi o similari. Ma versano/versiamo troppo poco per sperare di ottenere un assegno dignitoso. Di più: secondo sempre l’Autorità di vigilanza sui fondi integrativi nel 2013 le posizioni (e quindi i lavoratori), che hanno sospeso i versamenti sono aumentate (nel 2013 circa 1,4 milioni di posizioni individuali non sono state alimentate; oltre 1 milione quelle sospese). Così come sono cresciuti esponenzialmente i riscatti anticipati (si può chiedere fino al 30% del capitale accumulato per spese varie e fino al 70% per l’acquisto della prima casa). Un buco per l'Inps - Dei famosi 25 miliardi di Tfr accumulati annualmente, circa 6 finiscono all’Inps in un fondo apposito. Se dovesse passare - per come è stata anticipata da Renzi - la proposta di dimezzare i versamenti, l’Istituto di previdenza (già malmesso) avrebbe un ammanco di 3 miliardi l’anno. Buco da coprire, ovviamente con la “fiscalità generale” (tradotto: più tasse per tutti). Imprese in bolletta - Se i lavoratori hanno (avranno) tanti rischi, e l’Inps vedrà allargarsi il buco, non se la passeranno meglio le piccole e medie imprese. Verrebbe a mancare una fonte importante (alcuni miliardi) di finanziamento. Il quasi 7% della retribuzione differita (che gode di una rendita annuale garantita), è stata sempre utilizzata come “piccola cassa” per fare investimenti, pagare tasse e saldare fornitori. Soldi che si accumulano in bilancio, ma sono parte effettiva della liquidità d’azienda. L’idea del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, è di supplire a questa mancanza di liquidità attivandosi con la Banca centrale europea (tramite l’Abi). È vero che grandi aziende (come Volkswagen Bank che ha potuto richiesto un miliardo di prestito al tasso dell’1%), hanno attivato linee di credito dirette con Francoforte. Ma alzi la mano chi crede che possano riuscirci anche le nostre Pmi... di Antonio castro