Una
Euro, come uscire dalla moneta unica senza disastri
A questo punto siamo arrivati alla domanda cruciale: ma si può uscire davvero dall’euro? Non sarà una catastrofe? Non si scateneranno le forze oscure del male? Non saremo in balia delle tempeste planetarie? Non arriveranno gli arcangeli del bene a mozzarci le teste? È stata talmente caricata di aspettative nefaste, questa eventualità, che nell’immaginario collettivo si è trasformata in una specie di apocalisse nucleare, l’Armageddon finale, un antipasto del Giudizio Universale. E ci si ripete l’un l’altro, quasi per autoconvincersi, che «non può succedere perché non è mai successo». In realtà Bagnai ha ricordato come, dal dopoguerra a oggi, sono stati contati almeno settanta casi, dal Bangladesh alla Cecoslovacchia, in cui c’è stata la dissoluzione di un’Unione monetaria. In altri casi le monete nazionali sono state cambiate con operazioni lampo, molto rapide e molte efficaci: Heisbourg cita ad esempio il Brasile - una federazione di ventisei Stati con 200 milioni di abitanti -, che il 1° luglio 1994 sostituì il vecchio cruzeiro con il real, senza averne alcun danno. Anzi. «Sì, però ci sarà la svalutazione» dicono gli euro-terrorizzati. E la svalutazione viene così considerata alla stregua di una pestilenza planetaria, un morbo sconosciuto e letale, roba che «chi tocca muore». Trascinati negli abissi dell’oscurantismo economico, travolti dalla superstizione in salsa Ue e dal feticismo monetario ai cavolini di Bruxelles, ci si dimentica però che di svalutazioni il mondo è pieno. E non sono mai finite male, qualche volta sono finite anche bene. In molti casi presi in esame, dagli anni Novanta a oggi, nei trentasei mesi successivi alla svalutazione, il prodotto interno lordo del Paese in questione è cresciuto significativamente: del 6 per cento in Messico (1994), addirittura del 17 per cento in Argentina (2001), del 2 per cento in Cile e dell’1 per cento in Italia nel 1992. A proposito dell’Italia nel 1992: nelle pagine precedenti, ricorderete, abbiamo citato anche un autorevole europeista come il professor Monti, che dichiarò che allora fu un bene per il Paese. Perché non dovrebbe essere un bene anche adesso? Certo: c’è la grande paura dell’iperinflazione. Se si svaluta, esplodono i prezzi e sarà distrutta la nostra ricchezza. Anche su questo punto si dipingono scenari apocalittici e si sparano numeri da far paura: «con una svalutazione del 50 per cento, i nostri stipendi varranno immediatamente la metà» si proclama. Ricorro ancora una volta al professor Bagnai e provo a fare un po’ d’ordine: a) la svalutazione, secondo i principali studiosi, non sarà del 50 per cento ma oscillerà tra il 10 e il 20 per cento; b) l’inflazione sarà inferiore perché, come è noto, non tutta la svalutazione si trasforma in inflazione: stando ai medesimi studiosi dovrebbe aggirarsi fra il 3,5 e il 7 per cento in più dell’attuale, dunque fra il 5,5 e il 9 per cento; c) se anche arrivasse un po’ d’inflazione, siamo sicuri che sarebbe una tragedia peggiore di quella che stiamo vivendo? Ci sono molti modi per contenere l’inflazione, in effetti, anche di fronte a una svalutazione molto forte. Alcuni sono naturali: laddove è possibile, per esempio, si può aumentare la domanda di beni interni, che al contrario di quelli stranieri non costeranno di più nemmeno dopo la svalutazione. Nel dicembre 2013 la Coldiretti ha bloccato le frontiere denunciando la forte importazione di prodotti alimentari dall’estero: se anziché consumare latte polacco, patate tedesche, salumi olandesi e formaggi di Baviera comprassimo prodotti locali non sarebbe meglio? È stato stimato, dalla medesima Coldiretti, che ogni 1500 prosciutti che importiamo un lavoratore italiano del settore perde il posto. Se dunque i prosciutti prodotti oltre frontiera aumentassero il prezzo, e noi smettessimo di comprarli, otterremmo due risultati utili in un colpo solo: non faremmo aumentare l’inflazione e, al contrario, faremmo aumentare l’occupazione. Certo: ci sono alcuni beni, come l’energia, per cui, in conseguenza di qualche folle scelta del passato, dipendiamo totalmente dall’estero. Per quella via un po’ di inflazione ce la porteremmo sicuramente in casa. Ma lo Stato, libero dagli assurdi vincoli di Maastricht, potrebbe intervenire tagliando le accise, per esempio, o tagliando l’Iva e andando così a compensare gli aumenti di prezzi, almeno nei settori strategici. L’esperienza del passato ci conforta: nel 1992, con una svalutazione del 20 per cento, l’inflazione restò sotto il 5 per cento. E, in compenso, il reddito del Paese, come s’è detto, riprese rapidamente a crescere. E allora perché si continua a temere l’inflazione come il demonio? Perché la si definisce «la peggiore delle tasse»? Perché si accredita l’idea dell’aumento dei prezzi come una falce che recide gli stipendi degli operai? I dati rivelano tutto il contrario: quando cresce l’inflazione, la quota di prodotto nazionale che finisce ai salari aumenta. Viceversa, quando l’inflazione diminuisce, la quota di prodotto che finisce ai salari si riduce. Altro che «tassa sui poveri»: l’unica vera «tassa sui poveri» è questa folle austerità imposta dall’euro… L’altra obiezione, che normalmente viene fatta con tono di disprezzo, e senza argomentazioni di sorta, è che alla lira non si può ritornare perché andremmo immediatamente in default: la nostra moneta, infatti, verrebbe svalutata mentre il debito pubblico resterebbe espresso in euro, facendo così saltare il banco. Ora io domando: ma qualcuno pensa davvero che, andando avanti di questo passo, saremo in grado di pagare il nostro debito pubblico (che continua ad aumentare)? Il banco non rischia di saltare comunque? [...] Minori problemi ci sarebbero, naturalmente, sul fronte dei debiti interni. I mutui verranno riconvertiti in lire, come gli stipendi: se il cambio sarà di 1 a 1, come suggerisce ancora Bagnai, chi prendeva 1500 euro prenderà 1500 lire, e chi pagava 500 euro di mutuo pagherà 500 lire. Non cambierà nulla, o quasi, a parte i rialzi (quelli sì, inevitabili) dei mutui a tasso variabile. Ma non è vero quello che hanno fatto credere appositamente per spargere il terrore, cioè non è vero che gli stipendi passeranno in lire e i mutui resteranno in euro. Sarà tutto riconvertito nella nuova valuta, a parte, ovviamente, i debiti accesi all’estero. Quello è sicuramente un problema. Ma non è un problema di sicuro per le famiglie, al massimo per lo Stato, come abbiamo visto. E per le banche, che comunque lo potrebbero sopportare senza nessuna apocalisse, come accadde dopo la svalutazione del 1992. Eppure, quando i profeti di sventura ci descrivono, o meglio, paventano la futura uscita dall’euro, l’immagine che viene fatta passare è proprio quella di una specie di The Day After atomico-finanziario: italiani in coda davanti alle banche, camioncini che viaggiano di nascosto verso la Svizzera, bancomat chiusi, sportelli presi d’assalto, carestia di moneta, spalloni scatenati, salassi valutari e fughe di capitale senza fine. Per carità: di sicuro, se si cominciasse ad annunciare l’uscita dall’euro con mesi di anticipo, l’ondata di panico si impadronirebbe dei piccoli risparmiatori. [...] Ma basterebbe gestire la comunicazione con intelligenza, preparando il terreno al cambiamento con un po’ d’anticipo e gestendolo poi con rapidità nell’arco di un lungo week end, per superare buona parte delle difficoltà [...]. E, naturalmente, la riconquistata libertà di manovra consentirebbe a chi esce dall’euro di mettere in pratica tutte le misure che ritiene utili a salvaguardare la propria economia. Cosa che oggi, invece, non è possibile fare. Ora: abbiamo già visto e ripetuto che il 1992 è tutt’altro che un esempio minaccioso, anzi la svalutazione allora permise al Paese di riprendersi e di vivere un periodo di sviluppo. Perché, dunque, oggi dovrebbe essere un problema?[...] A chi vuole uscire dall’euro diciamo: facciamo prima le riforme, poi potremo valutare se tornare alla lira». Ma se tornare alla lira è possibile, perché dobbiamo aspettare? Per fare le riforme? Dunque la moneta unica non ha un valore economico, ma etico? Ci «toglie dalla pigrizia» come dice qualcuno? O, più banalmente, ci costringe ad accettare quelle riforme che democraticamente nessun Paese accetterebbe mai? E in nome di che cosa le dovremmo accettare? Per una moneta unica che ci fa stare, giorno dopo giorno, sempre peggio? di Mario Giordano