La lettera di un "ricongiunto"

Lucia Esposito

Gent. Dott. Belpietro,  con altri compagni di sventura siamo vittime di una situazione assurda. Le racconto il mio caso. Ho lavorato 18 anni per un Comune, e se avessi saputo cosa mi sarebbe successo a livello pensionistico 14 anni dopo averlo lasciato mi sarei guardato bene dal farlo. Il fatto è che mentre lavoravo nel mio piccolo Comune mi sono laureato, e poiché non c’era la possibilità di utilizzare all’interno di quell’ente la laurea conseguita, ho fatto una cosa che oggi gli attuali governanti dicono essere importante: quella di non fissarmi col mantenere un posto fisso Ero un precursore e così ho cambiato. Devo dire però che non era poi un vero e proprio salto nel buio, avevo sempre il mio zainetto di contributi da portarmi appresso, da ricongiungere gratuitamente all’Inps se avessi concluso la mia carriera in un ente o società che aveva quell’istituto come riferimento per i contributi previdenziali. Certo, arrivare a una pensione Inps non era come avere una pensione Inpdap, calcolata con criteri più convenienti, ma andava bene lo stesso. Valorizzare la laurea e interrompere la monotonia del posto fisso poteva valere anche questo piccolo sacrificio. Del resto agli sportelli Inps mi spiegavano che ricongiungere i propri contributi all’Inps  era gratuito proprio perché non vantaggioso. Mica era conveniente come fare l’operazione inversa! E, soprattutto, mi dicevano agli stessi sportelli: «Non si preoccupi di ricongiungere ora perchè può farlo gratuitamente poco prima di andare in pensione: la legge dice che lei la ricongiunzione può farla in ogni momento della sua carriera lavorativa!» Nel luglio del 2010 è invece uscita la famigerata legge 122/2010 con la quale la ricongiunzione di tutti i miei contributi verso l’Inps avrà un costo, stime di un patronato, di 135.000 Euro. Troppo caro e troppo ingiusto: i contributi li ho sempre pagati, esattamente come i colleghi che lasciai in Comune 14 anni fa e che, nella monotonia più completa, beati loro, andranno in pensione prima, senza pagare nulla e con la pensione intera. Certo anch’io potrei andare in pensione tra qualche anno con la cosiddetta totalizzazione, ma col 40% in meno rispetto a chi non ha mai cambiato lavoro. Questi significa in realtà che non potrò andare in pensione: ho infatti un figlio di 21 anni all’università e uno di 15 anni e anche lui vorrebbe andarci. Visto il misero importo della pensione totalizzata e non ricongiunta, per mantenere agli studi i miei figli dovrò continuare a lavorare sino a 67 anni, rinuncerò alla totalizzazione e punterò ad una doppia pensione: così potrò avere una pensione ridotta del 30% anziché del 40% (sempre che io riesca a mantenere il mio lavoro sino ad allora). Ho provato di tutto per contrastare questa cosa: ho scritto ai giornali, alle tv, ai politici, al presidente della Repubblica al quale ho invano chiesto se per caso tutto ciò rispetti la costituzione (ha inviato la mia lettera al Ministero competente, ma come fa d’altronde a dirmi che non è costituzionale, la legge l’ha firmata anche lui!). È stata presentata a mio nome un’interrogazione parlamentare, che non ha mai avuto risposta. A un certo punto l’On.le Bellotti, Sottosegretario al Lavoro del Governo che promulgò la legge, disse che gli effetti del provvedimento avevano travalicato gli intenti originari e l’On.le Cazzola, esponente di quella maggioranza, esperto di previdenza ed in commissione lavoro della Camera, spiegò che quello che si voleva fare era impedire alle donne del pubblico impiego di aggirare gli effetti di una norma che le obbligava ad andare in pensione più tardi.  Fu approvata all’unanimità una mozione che impegnava il governo a modificare la legge anche attraverso lo strumento della “interpretazione autentica”. Non si fece nulla. La legge non prevedeva entrate, ma oggi, con questo governo, dobbiamo assistere a dichiarazioni che giustificano il permanere della norma con motivazioni che vanno dalla necessità di bilancio, con cifre impazzite tutte da verificare che artatamente tardano ad essere formalizzate, alla esigenza di garantire equità, parola oggi di moda, ma evidentemente un po’ abusata, in specie se confrontiamo il caso specifico con certi trattamenti pensionistici privilegiati di cui gode ancora soprattutto la classe politica. Ma a prescindere da quest’ultimo aspetto, dove starebbe l’equità tra il trattamento pensionistico a cui avrò diritto per effetto della “formidabile” legge in questione e quello che riceveranno i miei ex colleghi che mai hanno cambiato lavoro? Per ristabilire pari condizioni di uscita dovrei pagare parte dei contributi due volte!!!  Dove starebbe l’equità tra me, che ero un dipendente comunale, e coloro che hanno cambiato lavoro, ma che erano dipendenti statali? Bisogna infatti sapere che per gli statali la nuova legge non vale ed io ero un semplice dipendente comunale! Dove starebbe l’equità tra me che ero un dipendente di un ente locale e coloro che, dipendenti di società elettriche, telefoniche, ecc., hanno avuto, dopo l’entrata in vigore della legge e per effetto di una circolare Inps, ancora qualche mese per fare la loro domanda di ricongiunzione e quindi per sfuggire al disastro?  Dove starebbe l’equità tra me e coloro che pur avendo cambiato società hanno visto permanere il loro diritto di iscrizione all’Inpdap, anche dopo che questo Istituto è stato soppresso? Chi non si trova in situazioni del genere può avere grandi difficoltà ad immaginare la disperazione che attanaglia chi ha fatto scelte importanti di vita anni e anni fa ed oggi si trova a vivere situazioni di questa iniquità e discriminazione! Il pensiero è fisso a ciò che è successo, a ciò che avrebbe potuto essere e al nostro destino di derubati, mensilmente, a vita. Per chi non si arrende, come me, come i miei colleghi che Le scrivono, la vita è comunque stravolta, trasformata in una battaglia quotidiana che cambia le abitudini di un’esistenza una volta serena. Speriamo che serva. Contiamo anche sul Suo aiuto. Claudio Floris