I repubblicani sceglieranno un leader già sconfitto
Il gioco è bello quando è corto. Vale anche per il processo della nomination dei candidati alla presidenza, e per tutti e due i partiti. Più si trascina il giro dell’America alla caccia dei delegati per la convention estiva conclusiva, più scemano le possibilità di vincere poi a novembre. La prospettiva di una “broken Convention” (Convention rotta, non unita dietro un leader), ossia di una assemblea plenaria finale alla quale non si presenta un già vincitore che ha coagulato le diverse forze del partito dietro di sé, è deleteria per le sorti del partito: chiunque si impone, poi perde. Dick Morris, ex consigliere di Bill Clinton negli Anni Novanta ed oggi fervente repubblicano (personalmente non ha ancora appoggiato alcuno dei quattro candidati residui) ha lanciato l’allarme dal suo seguitissimo blog agli elettori delle prossime giornate di voto in calendario in marzo: fate presto a decidere! Dagli Anni Sessanta, ha ricordato Morris, si sono verificati quattro casi di primarie che si sono trascinate fino all’ultimo, e sempre chi si è alla fine imposto è uscito con le ossa “broken”, rotte, dalle urne a novembre. Nel 1964 toccò ai repubblicani subire una feroce divisione tra Barry Goldwater, ultra conservatore del sud che anticipò senza successo la “rivoluzione reaganiana” del 1980, e la corrente del liberal repubblicano Rockefeller. Goldwater la spuntò, ma la lacerazione interna produsse una debacle del GOP nel Paese: si aggiudicò solo un pugno di Stati del sud e per Lyndon Johnson fu il trionfo (61% del voto popolare). Quattro anni dopo fu la volta dei democratici a frazionarsi violentemente: Lyndon Johnson, il presidente in carica, si ritirò durante le primarie, mentre Bobby Kennedy, subentrato nella corsa a Johnson per contrastare Eugene McCarthy, fu ammazzato la sera che aveva vinto la primaria in California. Al ritiro di Johnson, contro McCarthy era sceso in lizza pure il vicepresidente Hubert Humphrey, e i due battagliarono fino alla fine, arrivando al redde rationem della Convention. Vinse alla fine Humphrey, che perse però poi a novembre contro Richard Nixon. Nel 1972 i democratici offrirono il bis. George McGovern emerse alla fine come candidato, ma il processo di accaparramento dei delegati in California ed Illinois fu tanto travagliato da avvelenare il clima alla convention, al punto che McGovern riuscì a trovare il vicepresidente, dopo i rifiuti di Ted Kennedy, Walter Mondale, Humphrey e altri pezzi grossi, solo a notte fonda. Tom Eagleton, senatore del Missouri che McGovern conosceva appena, si guadagnò alla fine il posto di vice ma i due furono costretti a fare i discorsi di accettazione della nomination alle due del mattino, senza neppure le Tv a riprenderli. Nixon ebbe la rielezione. La quarta volta, nel 1976, la maledizione dei tempi lunghi portò male al GOP. Gerald Ford, che era diventato presidente da vice di Nixon quando costui si dimise per lo scandalo del Watergate, fu sfidato da Ronald Reagan nella primarie. Anche in questo caso il braccio di ferro durò troppo, fino al mercato dei voti delle delegazioni in piena estate. Troppo tardi per consentire a Ford di convincere il paese che il suo sfidante, Jimmy Carter, era quello che poi si sarebbe dimostrato, un fallimento. Lui, Ford, frutto di un partito che si era dilaniato ad oltranza, sembrava peggio e non fu riconfermato a novembre. Meditate, elettori del GOP di Kansas e Wyoming (al voto oggi sabato 10), Alabama, Mississippi (martedì 13), Louisiana e Illinois (entro fine mese). Solo se date una spinta seria a Mitt Romney, che ha il 55% dei candidati assegnati fino a ieri, circa un terzo del totale, potete allontanare lo spettro della volata lunga che non porta al traguardo della Casa Bianca. di Glauco Maggi Twitter@glaucomaggi