Il partito dei ricchi? In America è quello democratico

Giulio Bucchi

Il partito Democratico è sempre più il partito dei ricchi, a dispetto della retorica attuale che non rispecchia più la realtà in essere diversi decenni fa. Dagli exit poll delle elezioni presidenziali che portarono alla Casa Bianca Jimmy Carter nel 1976 era infatti emerso che tra coloro che avevano un reddito più elevato di 20mila dollari (circa l’equivalente di 80mila di adesso) soltanto il 38% aveva votato per il rappresentante Democratico, mentre il 62% aveva scelto il Repubblicano Gerry Ford. Nel 2000, la prima volta che fu eletto George W. Bush, le rilevazioni post-voto segnalarono che il candidato Repubblicano si era assicurato il 54% dei votanti della fascia sopra i 100mila dollari di allora contro la minoranza del 43% che si era schierata per Al Gore. Il trend di conquista dei milionari da parte del partito Democratico è poi proseguito fino a segnare il sorpasso con Obama nel 2008: John McCain, il rappresentante del GOP, si è fermato al 46% dei votanti con un reddito superiore ai 200 mila dollari, mentre Barack ha avuto la preferenza del 52% dei più facoltosi americani. Cosa succederà  a novembre? Proseguirà  la tendenza di una classe crescente di miliardari che sposano le cause liberal e non si identificano con i Repubblicani, simboleggiata dagli arciricchi Warren Buffett e George Soros, che si sono fatti paladini della battaglia del presidente per caricare di tasse più alte chi guadagna singolarmente più di 200mila dollari (o 250mila come nucleo famigliare)? Obama è convinto che il battage populista potrà compensare, portandogli più voti di poveri e classe media, qualche defezione tra i redditi oltre la soglia critica dei 200mila scelta come spartiacque. E, in realtà, il rischio pare ben calcolato poiché si basa sulle statistiche che dicono che nel 2008 il 6% dell’elettorato era costituito da persone affluenti, o meglio con più di 200mila dollari; e che, secondo dati del Censimento relativi al 2009, soltanto il 2,6% delle famiglie ha denunciato guadagni superiori a 250mila dollari. Per di più, il presidente ha dalla sua i sondaggi: quello di NBC-Wall Street Journal dell’agosto del 2011 ha rilevato che il 59% di coloro che sono sopra i 100 mila dollari di reddito ritengono “accettabili” aumenti della tasse per i facoltosi, una percentuale quasi identica al 60% degli americani in generale. Pur avendo il controllo di Camera e Senato nel 2009 e 2010, però, Obama non era riuscito a far spirare come voleva, alla fine del 2010, gli sgravi fiscali fatti passare da George Bush nel 2001 e 2003. Perché? Il presidente fa facile demagogia nel dire che chi è ricco deve pagare più tasse, ma il sistema Usa è già tanto progressivo che circa la metà degli americani non paga un centesimo in tasse federali, e molti godono anzi di crediti fiscali che significano assegni da Washington. Molti parlamentari democratici in distretti delicati, in cerca di rielezione,  non potevano e non possono non tener conto della realtà economica locale. Ecco perché hanno lasciato Obama a fare i suoi comizi, ma non lo hanno ubbidito in Congresso a fine 2010 ed hanno prolungato di due anni gli sgravi, che spireranno così a fine 2012. “Se uno vive nell’Upper West Side di Manhattan gli incrementi di tasse non sono magari così problematici per lui, come invece lo sono per un piccolo imprenditore o professionista di Cincinnati in Ohio, anche se entrambi hanno un reddito di 400mila dollari”, ha detto il sondaggista repubblicano David Winston a John Harwood del New York Times. L’allusione è ai liberal degli Stati blu, la cui motivazione a votare Obama è legata più ai temi dell’aborto libero, e delle nozze dei gay, che non ai conti di bilancio che invece angustiano i piccoli business nell’America profonda. Questa variegata geografia del sentiment tributario sarà, a novembre, un fattore determinante della riconferma o meno di Obama. di Glauco Maggi twitter @glaucomaggi