Il commento

Alessia Pifferi, quando la mamma diventa il diavolo

Vittorio Feltri

Alessia Pifferi, 37 anni, di Milano Al pm milanese Francesco De Tommasi che l'ha interrogata Alessia Pifferi, 37 anni il prossimo agosto, ha risposto di essere pienamente consapevole del fatto che la sua bimba di appena 18 mesi, Diana, avrebbe potuto morire a causa di un abbandono protrattosi addirittura per sei giorni. Il viso della donna non tradiva neppure l'ombra di un recondito turbamento né il germe di un pentimento o l'embrione di un rimorso o - che so io - di un rimpianto. Neppure una lacrima ella ha versato mentre ricostruiva quello che ha compiuto dalla sera di giovedì 14 luglio al mattino di mercoledì 20, quando è rientrata nel bilocale sito nella periferia di Milano, dove, in una spartana culla da campeggio divenuta - si ignora esattamente quando un letto di morte e una tomba, la piccolina giaceva oramai senza vita.

 

 


Mercoledì sera, per l'appunto, attrezzata di due valigie, per portare con sé tutto il necessario ma tralasciando purtroppo l'indispensabile, la signora si era chiusa alle spalle l'uscio di casa per raggiungere il compagno nella provincia di Bergamo, a Leffe. Un lungo weekend romantico, una settimana intera, la più bollente dell'estate, periodo durante il quale Alessia Pifferi ha mangiato, dormito, riso, fatto all'amore, mentre la sua bimbetta pativa la sete, la fame, il caldo, l'inedia, l'incuria e la desolazione. Accanto al suo corpicino denutrito soltanto un biberon con latte avariato e psicofarmaci, come se si trattasse di una donna vissuta, stanca della esistenza, la quale deliberatamente sceglie il suicidio. Invece no. Si tratta di un cucciolo di essere umano, appena venuto al mondo, assassinato nella maniera peggiore e dall'unica persona sulla Terra, deputata a prendersene cura, la quale, nel nostro immaginario organizzato in stereotipi, mai avrebbe dovuto e potuto adoperarle tanto sadismo, ovvero la madre. "Mamma", parola dolce e sublime, la prima che impariamo, l'ultima che pronunciamo. Tuttavia la "mamma" talvolta può essere un essere mostruoso, colei che dà alla luce e getta pure nelle tenebre, colei che per sempre segna la vita o la psiche di un individuo, rovinandolo. Alessia Pifferi è una genitrice di questo tipo. Una che non avrebbe mai dovuto diventare madre, ma che pure la Natura imperfetta ha reso madre.

 

 

Non era la prima volta che lasciava in totale solitudine la sua creaturina per rincorrere amori conosciuti sui siti di incontri, dove tutto si cerca fuorché l'amore. Le altre volte le era andata bene, ossia Diana era sopravvissuta. O forse le era andata male, poiché non possiamo affatto escludere che questi abbandoni continui non fossero tentativi di omicidio falliti, falliti ogni volta, fino a questa volta qui. Alessia Pifferi dichiara di essere ben cosciente della circostanza che la sua piccolina potesse crepare. Non dichiara che forse ci sperava. E questo spiega il perché lunedì, pur essendo rientrata a Milano con il compagno per motivi di lavoro di quest' ultimo, ella abbia preferito non passare dalla sua abitazione, magari avrebbe potuto trovare Diana ancora in vita, magari Diana avrebbe ancora potuto essere salvata. Molto meglio non correre questo rischio. Molto meglio varcare quella soglia con la sicurezza di avere finalmente portato a segno il colpo, stavolta, ovvero di essersi liberata di quella figlia mai voluta, mai desiderata, mai accudita, mai amata, malnutrita, nata prematura in un bagno privato. Alessia Pifferi sognava la libertà. E ora finirà dietro le sbarre. Per l'inferno è ancora presto. Alessia Pifferi si era convinta che essere liberi significhi non avere alcuna responsabilità, partire e lasciare il figlio a casa, cosa inconcepibile per qualsiasi persona munita di cuore la quale non abbandonerebbe nemmeno le piante per una settimana senza qualcuno che quotidianamente si rechi a ristorarle. Alessia Pifferi considerava la sua bimba un peso e non un dono del Cielo. Un onere di cui sbarazzarsi. Senza poi provare l'ombra di un recondito turbamento né il germe di un pentimento o l'embrione di un rimorso o - che so io - di un rimpianto. Neppure una lacrima.