Kant e dintorni
Ucraina, rissa fra leviatiani: la filosofia spiega la guerra e il disordine globale, come andrà a finire
Immanuel Kant non si è mai allontanato in vita sua da quella Koenigsberg che oggi, col nome di Kalingrad, è una importante enclave militare russa insinuata nel mar Baltico fra Polonia e Lituania, a ridosso della Germania. E fu qui che scrisse e concepì le sue opere maggiori, che gli dettero fama immediata come filosofo universale ma anche come rappresentante per antonomasia di quel "Secolo dei Lumi" che aveva rivoltato come un calzino la Francia e l'Europa intera. Fu alla fine del suo straordinario itinerario di vita e di pensiero, nel 1795, ormai ultraottantenne, che Kant scrisse quel testo abbastanza atipico che è Per la pace perpetua, che in questi giorni di guerra in Ucraina sentiamo citare spesso da opinionisti ed esperti più o meno improvvisati. Atipica l'opera di Kant è almeno per due motivi: perché si presenta sotto la forma di un trattato internazionale, con tanto di commi e articoli, e perché sembra accarezzare un ideale utopico che stride fortemente col suo illuminismo solido e ben piantato "coi piedi per terra". Come si può pensare, hanno osservato in molti, che sia possibile eliminare dalla faccia della terra quei conflitti armati che hanno sempre accompagnato l'umanità, tanto da far parlare Hegel, di lì a poco, della storia come di un «enorme mattatoio»? E come poté pensarlo proprio colui che, in pagine memorabili, aveva legato il perfezionamento morale allo stimolo esercitato sull'uomo, essere imperfetto per natura («legno storto»), dal male in tutti i suoi ineliminabili aspetti?
Leggi anche: Pd, Pietro Senaldi e la verità sugli amici di Mosca: i putiniani in Italia sono tra i dem
STATI E SUPERSTATI
Probabilmente per risolvere queste contraddizioni bisogna porsi su un piano diverso, che è quello del diritto. Ponendosi sulla scia di Hobbes, Kant si chiede se non sia possibile ipotizzare le condizioni, sia «preliminari» sia «definitive», di un contratto sociale volto a superare la «guera di tutti contro tutti» non fra individui e Leviatano ma fra i singoli Leviatani, cioè gli Stati nazionali, e un ipotetico "Stato universale". È a queste condizioni piuttosto che alla loro realizzabilità che perciò noi dobbiamo guardare per giudicare Kant. Fra di esse spicca quella che pretende che ognuno degli Stati che partecipino al patto sia «repubblicano», il che significa per il filosofo che sia governato da leggi e non dall'arbitrio dei singoli. Solo su questa base si potrà, a sua volta, costruire una «Repubblica universale» basata su un «diritto cosmopolitico». Al quale, è evidente, dovrà affiancarsi una forza o un potere legittimo che lo faccia rispettare.
Ora, lasciando da parte la questione se questo super Stato non sia affossatore delle differenze dei popoli (Kant non lo vuole e non lo pensa tanto che parla di «federazione»), la questione che dobbiamo porci è questa: chi è legittimato a usare la forza oggi a livello globale per far rispettare quel diritto internazionale che è stato clamorosamente infranto dalla Russia con la sua invasione di uno Stato sovrano? Non certo le Nazioni Unite, che sono un'organizzazione sovranazionale composta da una maggioranza di Stati che Kant definirebbe non "repubblicani", con due autocrazie, Russia e Cina, che hanno addirittura il potere di veto sulle decisione prese. Non escludo che l'America, in un mix di idealismo e realismo politico, abbia potuto accarezzare l'idea di porsi come il "gendarme del mondo" dopo la fine del comunismo e del mondo bipolare nato dagli accordi di Yalta. Certo, lo ha fatto con qualche contraddizione: invadendo anch' essa Stati formalmente sovrani, dall'Iraq all'Afghanistan.
Erano azioni spesso giustificabili perché si trattava di "Stati canaglia", assolutamente non repubblicani. Il fatto è che, all'ombra dell'unilateralismo americano degli ultimi decenni, il fronte degli Stati non democratici è cresciuto enormemente, sia in numero (la maggioranza della popolazione mondiale non è oggi governata da Stati di diritto) sia in potenza economica e commerciale (la Cina, la più grande autocrazia del mondo, insidia in molti settori l'egemonia americana). Il vero pericolo diventa perciò non quello del multilateralismo, cioè di una divisione del mondo fra grandi Stati che coprono vaste aree territoriali (gli Imperi che profetizzava quel grande allievo novecentesco di Hegel che è stato Alexandre Kojève) , ma quello di un nuovo bipolarismo che veda da una parte le democrazie occidentali e dall'altra un variopinto ma unito fronte di chi contesta il predominio della visione del mondo occidentale e l'universalità dei suoi valori, a cominciare da quello della libertà individuale (o dei cosiddetti diritti umani").
POLITICA E MORALE
Una prova di questo possibile asse antidemocratico e anti occidentale lo si è forse avuto il mese scorso con la risoluzione dell'Onu contro l'invasione russa dell'Ucraina: ben 38 Paesi si sono astenuti e fra di essi ci sono potenze come la Cina, l'India, il Brasile e il Sudafrica. Difficile non leggere il loro comportamento come un segnale politico. D'altronde, lo stesso Putin, nell'intervista del 2019 al Financial Times, aveva detto che il liberalismo è «obsoleto» e che ormai in molti, anche in Occidente, sono pronti per sperimentare nuovi modelli politici. Ritornando in conclusione a Kant, egli, nel chiudere il suo saggio, invitò a distinguere il politico morale, il cui avvento egli auspicava, dal moralista politico. Lungi dalle astrattezze del secondo, il primo fa i conti con i rapporti di forza reali, e pur avendo sempre come ideale regolativo quello della «pace perpetua» tiene conto dei rapporti di forza e delle situazioni storiche esistenti. È questo lo spazio della politica, anche e soprattutto internazionale. L'invito di Kant a intendere «i principi dell'arte politica in modo che essi possano coesistere con la morale» può sicuramente essere fatto nostro. E può esserci molto utile in questo delicato frangente.