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Ucraina, il Cristo più forte delle bombe di Vladimir Putin: la lezione di Leopoli
È successo che sabato il fotografo portoghese André Luís Alves assistesse ad una scena in fondo banale di tipo logistico. Chissà quanti ci sono passati davanti, con il cellulare innescato o la Nikon spalancata, dilettanti e professionisti, pronti a documentare scene di soldati che si battono il petto giurando di vincere o morire, o forse - se si ha la fortuna di vederlo in tempo e di sopravvivere un missile che uccide gente inerme. Hanno visto anche loro quel movimento di mani e legno, ma si sono girati a cercare altri soggetti meno consumati dal già saputo.
Non è proprio una notizia, il trasferimento di un Crocifisso, tra l'altro neppure attaccato alla croce, sospeso nella sua impotente immobilità mentre attraversa un portone: un'opera d'autore ignoto e ignorata da gran parte dell'umanità, da trasferire dalla parete dove stava tranquilla a un luogo più sicuro. Accade normalmente, è prassi. Anche quando si organizza una mostra si usano precauzioni con i quadri e le statue quasi fossero persone. Alves ci ha visto invece qualcosa di immortale, il segno di un'epoca, o forse di tutte le epoche: quelle mani delicate di operai, che stavano accompagnando fuori dalla cattedrale armena di Leopoli (Ucraina Occidentale), un Crocifisso in legno, in realtà mostravano il destino del mondo, la sua tragedia e forse una speranza da mettere al riparo.
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Stadi fatto che l'immagine è circolata vorticosamente su Twitter. La follia imperiale di Putin si è dovuta sottomettere, insieme alla voluttà temeraria di contrattacco di Zelensky, all'icona in cui sta l'essenza della nostra povera vita di uomini e donne. E chi ha dominato la scena piantandosi come una scheggia di granata nella mente di milioni di persone, sovrapponendosi alla guerra in Ucraina, sintetizzando il sangue dei bambini e dei soldati morti, le lacrime delle madri con il fagotto, sbugiardando chiunque osi giustificare questa mattanza o pretenda di sistemare la faccenda con le armi? Ma certo: Lui. E chi se non il volto del Nazareno morto, che pretende di salvarci facendosi crocifiggere una, dieci, un milione di volte? (Ma quand'è che risorge?). Non è un pistolotto da pulpito. È accaduto ancora. È cronaca. Ieri dovunque ti girassi su internet vedevi Gesù Cristo, con la barba allucignolata e ingrommata dal sangue, e ti guardava, aveva gli occhi chiusi, ma ti vedeva. Quella faccia lì parla anche da morta, anche quando è destinata, come nel nostro caso, non a essere avvolta dal fazzoletto della Veronica, ma da una coperta resistente ai frammenti di granata. Hanno spiegato poi gli esperti: «Stiamo avvolgendo le sculture con teli ignifughi, lana di vetro, un alluminio speciale, e poi le mettiamo all'interno di sacchi».
C'è anche la foto del Cristo impacchettato, ma delle altre sculture non importa a nessuno, quella lì invece non lascia in pace, viene voglia di toglierle di dosso quella sindone assai poco sacra fatta di condimenti chimici, ed esporre quel corpo come sfida alla guerra. È il Crocifisso, incute spavento, eppure sprizza inspiegabilmente speranza dalla sua pena. Che sia davvero destinato a rovesciare il suo e il nostro sepolcro? È la domanda che attraversa l'umanità da duemila anni, e pareva sparita in questa età del nichilismo o del panteismo orientale, invece torna. È un fatto. Ieri è tornata. C'è un'altra suggestione a colpire. Quel Crocifisso armeno venne messo al riparo un'altra volta, occultato, sepolto, e fu quando Leopoli (Lviv in ucraino, una città che ha molto di italiano nelle sue architetture) fu occupata dalle truppe di Hitler. Poi riebbe la luce, quel Crocifisso. Ma nell'Ucraina sovietica la cattedrale armena fu sconsacrata, ridotta a magazzino di arte inutilmente sacra, guai a venerarla, e i preti armeni spediti nei gulag. Ha ripreso vita liturgica - e ospita anche messe cattoliche - dopo la fine dell'Urss. Hitler era pagano, detestava le religioni semitiche.
Oggi il Crocifisso è minacciato invece da una guerra di imperialismo cristiano. Tutto questo ambaradan intorno a una povera scultura è accaduto quasi per distrazione, come tutte le grandi scoperte del genio umano. André Luís Alves dopo aver postato quella foto ne ha messa in sequenza un'altra: in una strada deserta un bambino suona il flauto, mentre un anziano signore gli passa accanto. «Che cosa li lega?», si chiede Alves. Entrambi vivono in un Paese in guerra, ma per via dell'età non sono costretti a combattere. «Passato e futuro si intersecano nella stessa immagine», si risponde il reporter. Il Cristo ucciso portato in un bunker è il segno indelebile di colui che ha offerto la sua vita per tutti. Dramma. Cristo però non è solo: i fedeli operai impegnati a sorreggerlo mostrano l'arma più potente che l'umanità possa conservare: la speranza.
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Lo sguardo si sposta da quegli uomini che tengono il berretto ben calcato intesta per il freddo, al corpo morto, annichilito da secoli sul Calvario. Sembra morto cento volte. Ma non muore mai abbastanza: perché sta ancora con la bocca spalancata? Cerca di respirare odi dirci qualcosa? Ma certo, dice qualcosa che purtroppo dimenticheremo. Fino alla prossima volta, perché noi uomini siamo così. Costruiamo e poi distruggiamo. La fotografia così drammatica e potente induce a paragoni. Non c'entra Caravaggio, manca la luce. Rievoca piuttosto la Deposizione dalla Croce di Cristo di Pieter Paul Rubens (conservato nella Cattedrale di Nostra Signora ad Anversa), dove l'apostolo Giovanni sostiene il corpo che viene calato da Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea.
Nel quadro di Rubens la Vergine Madre è a sinistra del gruppo, in basso, e, disperata, sfiora il gomito del figlio. A sinistra, inginocchiata, la Maddalena sostiene i piedi del Messia. Nell'immagine di Alves non ci sono. Dov' è la Madonna, dov' è andata Maddalena? Ma certo che le abbiamo viste, stanno in ginocchio prima di partire con il bambino per mano e un fagotto; stanno in quelle innumerevoli carovane in marcia verso Occidente. Quella bocca aperta del Cristo armeno di Leopoli dice le parole pronunciate ieri dal Papa: «La guerra è una pazzia! Fermate questo fiume di sangue e di lacrime». Una foto non può fare miracoli, d'accordo. Ma se ce ne fosse una, è questa.