Amarezza
Covid, dalla pandemia ne usciremo. Ma non migliori: ecco che cosa ne sarà di noi
Possono esserci due atteggiamenti diversi a proposito delle iniziative di restrizione adottate per il contenimento dell'epidemia. Due atteggiamenti diversi sia tra quelli che le impongono sia tra quelli che ne sono destinatari. Il primo è quello di chi avverte la gravità del provvedimento che restringe le libertà e i diritti, ma si costringe a infliggerlo o a subirlo perché ritiene che sia necessario.
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L'altro è quello di chi lo infligge o lo subisce perché ritiene che quelle libertà e quei diritti non valgano nulla: e che siano sacrificabili non perché altrimenti non si può fare, ma perché rinunciarvi non costa niente. Il rischio che stiamo correndo è questo, ed è più grave delle limitazioni per sé considerate, è più grave delle rinunce a cui siamo sottoposti. La verità è che ogni ondata di restrizioni non si frange sulla speranza che passi, ma sull'abitudine a subirla. Il ritorno del freddo non è vissuto con i diritti e le libertà che vanno in letargo, ma con i diritti e le libertà che possono morire di freddo perché tanto ci tiene in vita il termosifone della scienza.
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Il "ne usciremo migliori", la prospettiva di una nuova egemonia di cui (non) vaneggiava il ministro della Salute e della Delazione, altro non sono che questo: la degradazione a cose superflue delle cose che abbiamo perduto. La cupamente allegra derelizione dei diritti e delle libertà sul presupposto che non servono, piuttosto che l'aspettativa di recuperarli nella dolente sopportazione della rinuncia.