I tempi che corrono
Covid, ormai siamo sotto tutela: provare a ignorarlo è un segno di degrado
Ormai abbiamo accettato che la Repubblica possa procedere solo in regime luogotenenziale: con la differenza che ad affidare il lavoro di governo non c'è un re esausto o altrimenti affaccendato, ma un potere frantumato e decadente, che non rappresenta e non ambisce ormai più a rappresentare nessuno, un vasto mandarinato che sequestra l'azione collettiva e la perverte alla gestione di un declino generalizzato.
La pandemia è un'occasione strepitosa per tenere oliato quel sistema di reggenza, con l'inamovibilità dei quadri supremi spacciata per garanzia democratica, con le occasioni di rilancio identificate nel debito provvidenziale posto a compensare l'inettitudine produttiva del Paese, e con l'accantonamento della ragione per cui l'Italia è destinataria dei più cospicui aiuti: vale a dire non il più grave insulto dell'infezione, altrettanto grave altrove, ma le più gravi condizioni pre-pandemiche di chi l'ha subìta. Tutti quei miliardi, appostati a debito di chi oggi non vota, non curano un corpo sfigurato dal virus, ma quello costituzionalmente più debole che spezza le reni alla crisi con otto milioni di baionette e scarpe di cartone.
In questo quadro, la destituzione del potere rappresentativo in favore di un assetto commissariale che puntella con decreti emergenziali l'edificio pericolante non è più nemmeno un problema da risolvere: è una conquista da proteggere. E gli appuntamenti elettorali, e gli avvicendamenti di vertice, non sono ordinarie occasioni di snodo nel corso democratico, ma angosciose prospettive di destabilizzazione. Che poi non ce ne si accorga, e si lasci correre, è soltanto il segno supplementare di quanto sia avanzato il degrado.