Disanima

Pietro Senaldi, il premier Draghi ha la fiducia solo del 40% degli italiani: ecco gli errori fatti

Pietro Senaldi

I sei mesi di luna di miele che normalmente gli italiani concedono ai nuovi governi si sono consumati in meno di sei settimane. Due sondaggi, quello di Euromedia-Research per Porta a Porta e quello di Emg-Aqua per Agorà, danno il gradimento dell'esecutivo in picchiata, al 46% quello per l'istituto della Ghisleri, addirittura al 40 per Masia. Regge ampiamente sopra il 50% la fiducia nel premier, ma anch' essa è in pesante calo, se si considera il dato di partenza al 66%. La popolazione è in vigile attesa, uno stato d'animo molto più prudente rispetto alla resa festante e all'incondizionata fiducia con le quali la maggior parte della stampa ha accolto l'incarico all'ex capo della Banca Centrale Europea. Gli italiani non hanno ancora capito dove il grande banchiere andrà a parare. SuperMario ha giubilato il commissario Arcuri nonché il capo della Protezione Civile e decimato il Comitato Tecnico Scientifico. Sono mosse decisive per cambiare schema, ma non colpiscono l'opinione pubblica, che giudica in base ai fatti più che ai personaggi.

 È ingeneroso trarre un bilancio dopo solo un mese, però i cittadini vedono che l'Italia ha richiuso, i bambini non vanno a scuola, passeremo la Pasqua come il Natale, i morti aumentano, i ristori sono sempre stitici, la partita dei vaccini pare addirittura essersi complicata e anche se abbiamo scritto un piano d'utilizzo dei fondi Ue da 110 e lode, nessuno comunque lo ha letto; in più il denaro ancora non è arrivato né ben si è capito come sarà impiegato. Chi dice che il governo Draghi non ha fatto molto di più né di diverso da quello di Conte non coglie nel segno ma neppure sbaglia di tanto.

 

 

 

 

Siamo ancora all'apertura di credito, al «fidiamoci che è bravo», ha un curriculum notevole e comunque non abbiamo a disposizione di meglio. Però anche i più distratti si accorgono che altri Paesi sono mesi avanti a noi nella profilassi; in mezzo mondo si va al bar, l'economia è tornata a girare e la vita scorre quasi come prima. E allora il carisma personale del premier non basta a coprire le perplessità su un esecutivo che va dalla Lega alla sinistra estrema, tanto eterogeneo da non scontentare pienamente nessuno ma neppure da poter soddisfare completamente qualcuno. La fragile varietà del governo indebolisce il presidente del Consiglio più di quanto la solidità del medesimo non rafforzi la squadra. Ecco perché l'amore tra il banchiere e il popolo non è scattato, ed è un guaio perché la stima è cosa diversa dal sentimento, cala al primo errore. Lo stop di tre giorni alla vaccinazione con Astrazeneca per assecondare i timori tedeschi e nascondere le difficoltà della Merkel, venduto dal governo come una necessaria mossa precauzionale, ha peggiorato la situazione.

Il fatto che ieri l'Agenzia del Farmaco abbia ordinato di riprendere le iniezioni è una buona notizia ma ha definitivamente bollato la scelta della politica di sospenderle come un atto di paura e debolezza anziché di responsabilità. Se il premier si fosse ribellato ai diktat della Merkel e avesse continuato a vaccinare, imponendosi ai tedeschi, come fece quando da governatore della Bce pose fine alla speculazione sull'euro e all'austerità, diventando il salvatore della Ue, sarebbe uscito come un gigante dalla vicenda Astrazeneca, avrebbe ripreso il centro della scena europea come ai tempi d'oro e i sondaggi ora gratificherebbero lui e il governo. Purtroppo, da Palazzo Chigi è più difficile puntare i piedi che da Francoforte, SuperMario si è rivelato succube e la sua immagine ne ha risentito.

 

 

Ora risalire è arduo, servono fatti, non parole. Ieri era il giorno della retorica nazionale, dedicato ai morti dell'epidemia. Draghi è andato doverosamente a Bergamo, dove Conte si era visto una sola volta, a tarda sera, e ha parlato. «Lo Stato c'è, l'Italia ha voglia di rialzarsi» ha detto.

Vera la seconda, più discutibile la prima. Ha anche aggiunto un «mai più», che suona come un rimprovero ai predecessori e un «ci vaccineremo indipendentemente dall'Ema», che è una toppa peggio del buco, perché ormai il danno è fatto, gli italiani sono spaventati e l'autonomia di scelta è compromessa. Il premier parla poco. Questo è un merito. La circostanza che lo faccia solo nelle ricorrenze ufficiali non è però una giustificazione per limitarsi a dire banalità. Chi parla poco viene ascoltato di più, il presidente non sprechi le cartucce della comunicazione come il suo governo ha invece sprecato le preziose fiale di Astrazeneca.