Missiva
"Forse un po' di fiducia a noi donne andrebbe data": governo Draghi, l'intervento di Fernanda Fraioli
Preg.mo Direttore,
in questi convulsi giorni di formazione del nuovo governo stiamo assistendo all’ennesima conflittualità, oltre che su tematiche squisitamente politiche, anche a schermaglie che riconducono alla guerra di genere.
Non uso, volutamente, il temine di contrapposizione perché mi pare assistito da una possibilità di risoluzione maggiore di quanto non lasci presupporre un conflitto armato, fisiologicamente sbilanciato in favore di chi detiene la maggior parte di potere.
Prima e dopo la formazione della nuova squadra uno dei punti di frizione sembrerebbe sia, anche all’interno dei singoli partiti, proprio la rappresentanza femminile al governo, prima promessa a piene mani, dopo concessa in una misura che definire simbolica, appare oltremodo riduttivo.
Dal 50% ipotizzato, in modo soltanto numerico, cioè senza riferimento alcuno al peso specifico del Dicastero che sarebbe stato ricoperto e/o della capacità di incidere pesantemente sulla politica nazionale, è stata elargita una percentuale assolutamente irrisoria.
Ed ora che si parla di posizionarle in retroguardia, in seconda fila dietro il vertice, ovviamente maschile, ha il sapore della toppa peggiore del buco.
Dico subito che non posso essere contenta, anzi, non lo sono affatto.
Non come donna, ma proprio come cittadina di un Paese che si fregia di essere tra i più progrediti.
Non mi piacciono i numeri ed i correlativi pesi specifici della rappresentanza rosa che possiamo esibire noi a fronte di quanto, corrispondentemente possono fare gli altri Paesi tra i quali, per carità di patria, non cito neppure lontanamente realtà oltreoceano.
Purtuttavia, in questo strano (per quanto usuale) marasma rilevo qualcosa, a mio sommesso avviso, non adeguatamente valutato, che dovrebbe servire quale chiave di lettura dell’apporto femminile alla causa comune, sia pure spalmato su un lasso di tempo non breve.
Intendo precisare che non sto guardando il bicchiere mezzo pieno.
È, a mio parere, pur sempre (troppo) mezzo vuoto.
La mia è soltanto una considerazione che deve servirci da chiave di lettura per non occuparci più in futuro di questo tema, definitivamente.
Il riferimento è alla nomina di una donna al Ministero della Giustizia.
Indiscusse le capacità professionali della prof.ssa Cartabia, oltretutto ampiamente dimostrate nella lunga carriera professionale, quel che rilevo è che ha conseguito lo scranno da sempre feudo maschile, più di qualunque altro.
Sembra uno scherzo del destino, ma quel famoso bipede di sesso femminile che non più tardi di 60 anni fa’ fu definita “la grazia contro la giustizia”, ha conseguito proprio la posizione di vertice dell’organizzazione dell’amministrazione giudiziaria, insomma dei magistrati, nelle cui fila noi donne abbiamo avuto bisogno di una legge che ci riconoscesse immuni dalle tempeste ormonali nell’esercizio delle delicate funzioni giurisdizionali.
La terminologia che uso non è né casuale, né mia, ma degli atti parlamentari che alla fine degli anni ’50 non consentirono alla legge presentata per l’accesso delle donne in magistratura di essere approvata che, però, valicato il decennio, fu finalmente varata.
Ma eravamo già nel 1963.
Ciò che aveva impedito a quella legge di passare erano espressioni oggi inaccettabili perché fortemente offensive, atteso che spaziavano dalla definizione della donna quale “essere intermedio tra l’uomo ed il bambino” a cui non si possono affidare compiti di rilievo perché contrassegnata “dalla debolezza organica e dalla psicologia a base istintiva, sentimentale e spesso capricciosa……Ha, soprattutto quando è giovane, scarsissimi scrupoli e freni morali. Ha spiccatissime attitudini per l’intrigo, per la simulazione, per il mendacio e per lo spionaggio… E’ tremenda nell’odio e nella vendetta. …….E tutto giudica dal lato sessuale…” .
Tanto da portare gli oppositori della novella normativa a domandarsi: “Orbene, è a un essere simile, dominato e sopraffatto della simpatia o antipatia sessuale, che si vuole affidare……anche le difficilissime e delicate funzioni di magistrato?”, tanto che la legge non passò.
Dunque, da allora molto è stato fatto da molte donne giuriste, che hanno dato prova che non era necessario fare delle lotte ed imporsi con tutte le loro forze all’universo maschile, ma che bastava semplicemente essere messe alla prova per consentire loro di apprezzarne le capacità.
Bastava non ostacolarle con leggi e respingimenti discrezionali, da sempre, appannaggio maschile.
Il riferimento da me fatto è al mondo giuridico perché quanto ho rappresentato è la situazione più immediata e calzante per tutti gli estremi che ho appena indicato, ma non l’unica.
Ed allora, mi chiedo – e chiedo a chi, in questi casi, ha tanto l’onere quanto anche l’onore – di formare squadre di gestori del Paese intero, in tutte le sue ramificazioni, del perché si deve continuare a parlare di quote rosa o a versare fiumi di inchiostro su una tematica che diventa problema solo perché non affrontato con quella stessa serenità che oggi ci porta a confrontarci in una qualunque aula di tribunale con giudici donna, senza che nessuno più si sorprenda o le consideri prede di quel coacervo di sentimenti negativi che sopra ho virgolettato.
Serenità, però, conquistata col tempo, nel troppo tempo passato dalla legge n. 66 del 9 febbraio 1963.
È il caso di dire che sarebbe anche finita l’ora delle prove da dare che ad un uomo non sono richieste, mentre a noi si.
Che, forse, un po' di fiducia ci andrebbe data, per così dire, d’ufficio, perché come i manicaretti e lo shopping siamo capaci anche di gestire uffici, amministrazioni e, perfino, il Paese per intero.