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Università, lo studio Bocconi-JP Morgan: ecco perché la laurea non garantisce un futuro migliore
Tutti noi, immersi nelle miserie della quotidianità, desideriamo da sempre elevarci attraverso la conoscenza. Quest'ultima rappresenta il mezzo migliore per sentirci parte integrante della Comunità, che da generazioni si regge proprio sulla saggezza tramandata dai nostri vecchi, dagli insegnanti e dai familiari che ci hanno cresciuto. L'esigenza, pressante, di cogliere l'essenza della nostra esistenza è da sempre nelle corde dell'uomo, che si batte inutilmente nel corso degli anni per capire che, in fondo, il senso ricercato così strenuamente non esiste in questo mondo avaro di soddisfazioni. Le quali, tuttavia, provengono in gran parte dalla nostra gioventù, principalmente i tempi del liceo e dell'università. Quest'ultima rappresentava una meta ambiziosa e quasi irraggiungibile per tanti italiani provenienti da famiglie umili.
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L'esigenza, a fine mese, era quella di raggranellare un bottino sufficiente per garantire un'esistenza dignitosa a sé e alla propria famiglia. Tutto il resto non era indispensabile, anzi ritenuto una velleità a cui volentieri rinunciare. Ma le virtù laboriose e contadine possedevano una lungimiranza invidiabile nei confronti del futuro dei figli. I quali erano incentivati a studiare, a dedicarsi alle fatiche dell'apprendimento liceale e, in seguito, a frequentare con profitto l'università. Così la formazione domestica dei vecchi, che istruivano alla vita i giovanotti, veniva completata in modo formidabile dagli insegnamenti dotti delle materie universitarie. La provenienza da famiglie povere e senza pretese generava nei giovanotti una tempra forte e consapevole, che li spingeva ad impegnarsi a fondo nell'adempimento dei loro doveri. Si trattava di un'osmosi vantaggiosa per entrambe le generazioni.
La laurea, in effetti, non era un semplice pezzo di carta da incorniciare una volta terminati gli studi. Il valore del corso di laurea era notevole e meritorio, volto a garantire un lavoro sicuro e ben retribuito. C'era chi, aspirando a un posto da insegnante, riusciva nell'intento applicandosi giorno e notte per vincere il concorso. C'era anche chi, provenendo da famiglia contadina, nutriva il desiderio di indossare il camice e dedicarsi alla chirurgia o alla medicina del territorio. Insomma, la scuola di vita familiare forgiava sul campo talenti nei vari ambiti della vita professionale. Oggi, purtroppo, la tendenza è in netto peggioramento. L'università italiana sforna frotte di disoccupati, incapaci di condurre una vita accettabile dedicandosi con profitto alle occupazioni bramate per anni.
Uno studio condotto dall'università Bocconi e da JP Morgan del 2019 mette in luce proprio l'inutilità degli atenei italiani, dediti più a incamerare le relative tasse che a fornire una preparazione adeguata agli studenti, che fanno sempre più fatica ad accaparrarsi un'occupazione accettabile. Il fenomeno, definito in gergo "skill mis-match", evidenzia come l'Italia sia il terzo Paese al mondo con il più alto disallineamento fra le discipline di studio scelte dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro. Dati alla mano, secondo la ricerca "New skills at work", il tasso di disoccupazione dei nostri laureati è molto più alto di quello dei Paesi vicini.
A titolo di esempio, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia di età 25-39 anni oscilla fra il 2% e il 4%, quella degli italiani fra l'8% e il 13%. Le imprese, di conseguenza, si sono adeguate alle mutate esigenze del mercato del lavoro. Così, stando a una ricerca del 2020 del sito Glassdoor.com, i colossi multinazionali hanno iniziato a sfornare offerte di lavoro destinate a giovanotti senza laurea. Da Google ad Apple, passando per Hilton, ormai le posizioni disponibili specificano che il pezzo di carta accademico non serve. Si tratta di una tendenza allarmante, che rischia di creare frotte di disoccupati e ignoranti. Che Dio ci benedica.