Doppiezza
Luigi Di Maio, doppio gioco con Berlusconi: di giorno lo insulta, di notte scodinzola
A Napoli, dove li conoscono bene, quelli come lui li chiamano «guappi 'e cartone». Luigi Di Maio è fatto così: di giorno, per accattarsi la benevolenza del pubblico grillino, pasturato per anni con pane e forca, sputa sulla mano che gli tende Silvio Berlusconi. Colmo di sdegno dice che certe cose mai le farebbe, lui nemmeno risponde al telefono se il Cavaliere chiama, «siamo due mondi diversi», «non c'è nulla che ci accomuna». E poi, quando sui palazzi romani calano le prime ombre della sera, compone il numero di Gianni Letta, eterno braccio destro del Cavaliere, chiede lumi al maestro Ugo Zampetti, segretario generale di quel Quirinale da cui piovono appelli alla «collaborazione», incontra nelle segrete stanze di palazzo Giustiniani la forzista Elisabetta Casellati, presidente del Senato che aspira ad essere la prima donna sul Colle. E con tutti loro incassa ed elargisce promesse, rassicura e blandisce.
Ascolta e prende nota di ogni cosa senza dire «no» a nessuno, da quel bravo democristiano campano che in fondo, antropologicamente, egli è. Disegna strategie per salvare un governo che annaspa, e con esso la sua poltrona, e dispensa ammiccamenti in vista del febbraio 2022, quando il parlamento sarà chiamato a votare il successore di Sergio Mattarella. A patto di arrivarci, con questa legislatura e il tesserino da ministro degli Esteri, all'appuntamento in calendario tra quindici mesi: il problema è lì. Ed è ciò che rende Giggino un uomo tutto d'un prezzo (politico, si capisce).
ARRAMPICATORE
Il suo segreto è opporsi a cose che nessuno vuole, in modo da intestarsi successi scontati. Intervistato dal Corriere della Sera, ieri ha ammonito che ognuno deve stare «al suo posto. L'opposizione è una cosa, il governo un'altra». Pare un orgoglioso veto all'ingresso di Forza Italia nel governo, eppure non lo è. Perché nessuno degli azzurri, da Berlusconi in giù, è così fesso da ambire a un posto al tavolo di palazzo Chigi accanto a Di Maio e Alfonso Bonafede. Assieme all'alleanza giallorossa si spaccherebbe il centrodestra. E siccome ci sono regioni da amministrare con gli alleati, presto si vota per eleggere figure importanti, tipo il sindaco di Roma, e all'orizzonte ci sono le elezioni politiche, dove Lega, Fdi e Forza Italia hanno l'opportunità di mietere voti e di seggi, far saltare tutto sarebbe un suicidio. È di altro, infatti, che si parla nelle discussioni con Di Maio: non belligeranza, condivisione di qualche emendamento ai provvedimenti economici in cambio di un surplus di "responsabilità" da parte dei berlusconiani, magari l'astensione o l'assenza "strategica" di alcuni di loro nelle votazioni più a rischio.
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Con i francesi di Vivendi che partecipano ai colloqui come convitati di pietra. Tramite Stefano Patuanelli, uno dei tanti miracolati da Di Maio, il governo si è schierato con Fininvest, bloccando per almeno sei mesi la scalata a Mediaset da parte dei transalpini, dopo che questi avevano ottenuto il via libera delle istituzioni europee. Davvero un'azione così buona e generosa può restare dimenticata? Non sarebbe da Cavaliere. Così il trentaquattrenne arrampicatore irpino sogna il colpaccio: rimanere vergine agli occhi dei suoi pur incassando il sostegno decisivo dell'impresentabile che contribuì a far cacciare dal Senato, vantandosene perché «finalmente un condannato è stato messo fuori dal Parlamento». Del politico «ridicolo, che va compatito» e contro il quale un anno fa prometteva di fare «subito una legge sul conflitto di interessi, perché noi a Berlusconi non dobbiamo nulla, anzi. E vedrete come cambieremo le cose». Si è visto, sì.