Belpaese

Coronavirus, il commento di Filippo Facci: a ognuno le sue regole, il viaggio nel caos delle regioni italiane

Regione che vai, mascherine che trovi. Non si parla della vendita e dell'offerta (ormai le trovi persino dal carrozziere) ma dell'atteggiamento della gente dopo mesi di campagna confusionaria e altalene di sottovalutazioni, sopravvalutazioni, lassismi, allarmi sfumati, rinnovati e pittoresche minacce di governatori vari. Chi vi scrive ha viaggiato per 17 giorni passando da Bormio, Ponte di Legno, passo di Gavia (sin qui Lombardia) e poi Passo dello Stelvio (Lombardia-Trentino-Svizzera) e poi Cortina D'Ampezzo e Venezia (Veneto) e Riccione e varia Costa Adriatica (Romagna e Marche) e poi Campo Imperatore e Rocca di Mezzo e di Cambio (Abruzzo) e poi Matera e Craco (Basilicata) e Brindisi e Lecce (Puglia) e ancora Napoli e il casertano (Campania) e a casa, perché mi faceva un male boia la schiena. Anche perché ogni volta dormivo con una soluzione diversa: casa di parenti, casa di amici, hotel a cinque stelle, tenda Columbus del genere che si monta sul tetto della macchina. Questo articolo, avverto, non era programmato: è sorto spontaneo nell'accorgermi delle differenze che segnano una differenza di percezione del Covid e delle coscienze e incoscienze civili. 

 

GIMCANA AL RISTORANTE
La prima sosta lombarda per mangiare una pizza ci ha già basito, ma è colpa nostra. I gestori guardavano con sospetto anche le auto che parcheggiavano. La mascherina andava indossata ancora fuori dal locale. Ci hanno fatto oltrepassare un tavolo (occupato) facendoci fare un giro dell'oca, un tavolo dove chi non mangiava ri-indossava la mascherina. Ci hanno piazzato lontanissimo da tutto e anche l'andare in bagno era una gimcana, abbiamo contato in tutto quattro dispensatori di disinfettante. Esagerati? No, perché poi ho realizzato: eravamo in Val Seriana. Più tardi siamo arrivati a Ponte di Legno a casa di parenti, e lì chi se ne frega, anche se nel pomeriggio abbiamo visto un tizio che giocava a tennis con la mascherina. Il mattino dopo si partiva verso i passi più alti d'Italia (Gavia 2.618, Stelvio 2.758) dove iniziava il troiaio che avremmo trovato in ogni altra sede frequentata da turisti soprattutto stranieri: libertà assoluta, chi sì e chi no, gente che si faceva fotografare in mascherina, una cosa per cui sembrava uno sfrontato chi l'indossava e così pure chi non l'indossava; l'impressione è che i tedeschi e i giapponesi sgarrassero di meno, ma vai a sapere. Il ragazzo che mi ha venduto un panino con la salsiccia a 7 euro forse metteva la mascherina per non farsi riconoscere, fuori dalle bottegucce c'erano cartelli severi che non interessavano a nessuno. 

Ripartenza per lungo viaggio verso Cortina, fermandosi in diversi autogrill del Trentino (Alto Adige, Merano, Bolzano) ed ecco che lì invece guai a chi non entrava mascherato, e non andava a consumare il caffè lontano o fuori, nonostante le barriere in plexiglass. Io - nota personale - per tutti i 17 giorni del viaggio ho sempre dimenticato la mascherina in auto e ogni volta dovevo tornare a prenderla: non era un rifiuto all'imposizione, era pura svagatezza. A Cortina mi sono fermato tre giorni e, come in tutto il Veneto, ho assistito al grado massimo di rigore: nei negozi si entrava uno alla volta, e chi per strada era privo di mascherina era talvolta oggetto di rimbrotti dei passanti. Un po' angosciante. Solo in un negozio hanno tollerato che io indossassi un collo-sciarpa dopo iniziali mugugni: quando hanno capito che dovevo comprare una caterva di roba. Ho visto bambini arrampicare in palestra con la mascherina, e mi hanno fatto pena. Poi ripartenza e altri autogrill dove c'erano bariste e cassiere tipo signorine Rottermeier che trattavano chiunque da untore, ma anche un benzinaio simpatico che ironizzava sui miasmi di idrocarburi che aveva respirato per vent' anni. Poi Venezia, la nostra Disneyland, dove per trovare un salatissimo parcheggio ho dovuto far telefonare dal proprietario del garage San Marco con cui avevo un contatto. Motoscafo-taxi per arrivare in albergo: 80 euro (sono scemi) ma io non sono un giapponese e quindi ho preso il vaporetto. Ecco, sul vaporetto (all'aperto, all'aria) l'intolleranza massima; sono stato redarguito pesantemente da un marinaio nervosissimo perché avevo lasciato scoperto il naso, poi si è messo a urlare con diversi altri. 

 

Qualche giorno dopo avrei letto di un ragazzo che è stato cacciato dai passeggeri a calci e spintoni perché non indossava la mascherina; era un tedesco, e l'hanno lasciato alla stazione di San Zaccaria. Comunque Venezia è il posto migliore del mondo per prendersi il Covid: strade strettissime e affollate, crogiolo di razze ed etnie, sudori e afrori, chi mascherine e chi no, negozianti isterici, tutti a dire che quest' anno non c'è gente, ma io una pressione antropica superiore non riesco neanche a immaginarla, e comunque gli hotel erano strapieni. Lasciamo Venezia con un senso di liberazione e passiamo a Riccione, ai Bagni Oreste. I bagnini ti accolgono in mascherina ma poi la tolgono subito. In spiaggia non l'ha nessuno, tranne qualche vecchio del genere che cerca le conchiglie per i nipoti. Ti dicono che gli affari vanno male, ma poi il gestore in un minuto risponde a due chiamate e dice che non ha posto per tre giorni. È colpa del distanziamento degli ombrelloni, dice. Gran salto sino a Campo Imperatore sotto al Gran Sasso, un posto meraviglioso. Nessuno ha la mascherina, anche se servirebbe un passamontagna perché in tenda ci sono 7 gradi. Dalle parti di Rocca di Mezzo e di Cambio tutto regolare, la mettono solo i vigili che non ti fanno entrare nei centri storici perché - avverte un cartello - «qui i bambini giocano ancora per strada». Altro gran salto sino a Craco, paesino fantasma della Basilicata che fu evacuato negli anni Sessanta per via di una frana. Dormiamo lì, ancora in tenda. Gli stormi di insetti e zanzare non portano la mascherina, e ce ne accorgiamo. Il mattino dopo siamo a Matera, non ci addentriamo (troppo casino) ma passiamo in macchina dal proibitissimo Belvedere senza che nessuno ci dica nulla, guardando dall'alto in basso centinaia di stranieri e saccopelisti che grondano sudore e fatica (senza mascherina). Poi lasciamo la regione che in ogni caso è sempre stata la meno contagiata d'Italia: anche perché non c'è nessuno (è bella per quello), ci girano i film western, e ha solo 588mila abitanti, come la sola Genova. 

TENDENZA IN CRESCITA
A Brindisi passiamo solo in una spiaggia costosa e attrezzata, dove l'uso della mascherina sembra un optional a libera scelta. Poi, di sera, la splendente Lecce: peggio di Venezia, un caos, una roba da agorafobia, capitale mondiale del potenziale contagio, mascherine chi sì e chi no, negozianti muniti e clientela decisamente meno, gente che a mezzanotte fa lunghe file per un rustico al pomodoro. Però un tizio, e anche l'albergatore, ci dicono che metterla, la mascherina, è una tendenza che sta crescendo. Serpeggia la convinzione che prima o poi toccherà pure a loro. Anche a Napoli è così, ma più spiccatamente. Ci piazziamo nel meraviglioso borgo dei Marinari, dopo plurime raccomandazioni per trovare un garage e una stanza che affaccia sul ristorante che ci avvelenerà e sul motoscafo che noleggeremo. Napoli è Napoli, non aggiungo altro, anche perché qualche personcina ostile mi ha riconosciuto. 

 

La mascherina viene messa con imbarazzo, entri in un ristorante o in un hotel e la togli dopo tre metri, aleggiano i moniti di De Luca ma anche la sensazione che qualcosa stia cambiando anche lì, anzi, è già cambiato. Gli americani sono spariti. I russi pure. Per il giro nel casertano, a caccia di mozzarelle, non servirebbe la mascherina, ma uno scafandro da palombaro. Dopo qualche battuta iniziale, l'effetto è quello di atterrirci, zittirci. Scheletri di costruzioni abusive. Pattume che costringe a slalom stradali. Cupezza e frinire di grilli e cicale. Non pensi più alle mascherine, a meno che siano anti-proiettile.