Il commento
Luca Palamara, Renato Farina e la scomoda verità: "Come un reprobo da sacrificare a buon nome della categoria"
Con una colonna sonora di sonagli e campanellini per festeggiare la ritrovata purezza, l'Associazione nazionale magistrati (Anm) ha espulso per "gravi e reiterate violazioni del codice etico" il pm Luca Palamara. A deciderlo è stato il direttivo, cioè la crème del sindacato unico delle toghe. Quanto accaduto è sembrato - a vederlo dall'esterno - una riedizione in altri ambiti di una seduta persino un tantino più dignitosa: quella del Gran Consiglio di un certo 25 luglio 1943. E così ieri, gli alti papaveri per preservare le proprie prerogative e giustificarsi davanti al popolo hanno liquidato (usiamo un diminutivo-vezzeggiativo per ragioni di proporzioni storiche) il ducetto del consesso di cui il reprobo era stato osannato presidente. Altri, in riferimento a quanto accaduto, hanno già usato l'immagine del capro espiatorio.
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Francesco Cossiga avrebbe parlato piuttosto - per assonanza del cognome e per una impressionante somiglianza dello sguardo - di tonno espiatorio, ma siamo lì: comunque lo si chiami è stato un rito decrepito e indecentemente tirannico. Il direttorio o direttivo o comitato centrale, non ci ricordiamo come si chiama, ma ci viene bene usare l'appellativo sovietico, ha infatti deliberato senza ascoltare l'accusato. Condanna in contumacia. Il socio degenere ha cercato di farsi ammettere mentre il politburo era riunito nel Palazzaccio. Non l'hanno fatto entrare. Galileo poté ribattere all'Inquisizione: "Eppur si muove". Palamara - e il genio pisano ci scusi dell'accostamento - non ha potuto neppure alzare davanti agli accusatori i cospicui sopraccigli! Dicono che così recita il regolamento dell'Anm, e che Palamara semmai avrebbe potuto farsi interrogare e difendersi prima, davanti ai probiviri. Accidenti che finezza spirituale, che adesione specchiata alla sostanza del diritto.
Siamo sarcastici? Diciamo che non siamo sorpresi da questi metodi, che evidentemente albergano nel profondo dell'ordine giudiziario italiano. Siamo alla cavillosità propria di chi a tutti i costi vuole impedire che l'incolpato vuoti il suo sacco in testa a chi non ha alcuna voglia di farsi sporcare la parrucca immacolata. Se avessero potuto, riteniamo che avrebbero fucilato Palamara a Dongo. Non abbiamo nessuna intenzione di difendere Palamara nel merito. Ha cercato di influenzare (e non da solo!) il corso della giustizia quando nel mirino c'era Salvini, spingendo il procuratore di Agrigento a mettere sotto accusa l'allora ministro dell'Interno per sequestro di persona. Per il resto ci viene da dire un mozartiano "così fan tutte" le toghe entrate nell'orbita del pianeta Palamara come satelliti o meteoriti. La gerarchia dei valori vede sul podio: al primo posto, la carriera mia; al secondo, la soddisfazione di mettere i piedi sulla giugulare dei colleghi; al terzo, un biglietto allo stadio per sé e i propri parenti. Orribile.
Logico fosse preferibile per il bene della causa che il nuovi capi dell'Anm non dessero occasione a Sansone di perire con tutti i filistei. I filistei ci tengono a tener su il loro tempio, anche se sputtanato e sconsacrato. Ma il diritto alla difesa dovrebbe essere sacro persino durante i regolamenti di conti dei pescecani. Non abbiamo letto la milionata di intercettazioni che sono confluite nei verbali. Esse sono state raccolte grazie a un metodo che non tutela gli estranei all'indagine: il Trojan è come un missile che ammazza la reputazione delle persone nel raggio di un chilometro intorno al destinatario del procedimento di intercettazione; è un erpice che strappa i segreti a chiunque si aggiri intorno all'indagato, senza riguardo di strappare le mutande a chi passi da quelle parti per caso. In Italia funziona così.
E la politica ha fornito quest'arma di distruzione di massa alle Procure. Per ironia della storia, la magistratura è cascata nella sua stessa rete. Per catturare un pesce grosso della medesima razza togata ha disvelato un mondo che il presidente Mattarella ha duramente censurato. Ascoltando Palamara in ogni istante della sua vita (meno quando si è intrattenuto con pesci grossi almeno come lui, cioè Davigo e Pignatone, perché in quel caso il Trojan ha fatto cilecca, misteri della scienza e della tecnica) si è potuto capire come funzionino le carriere dei magistrati, di come i più astuti tra costoro cerchino di aggrapparsi alla toga del capo corrente come un bambino con la sottana della mamma per fregare l'amichetto cattivo. Palamara era il Dominus da cui tutti passavano, a cui centinaia di magistrati si rivolgevano per sorpassare un collega magari bravo ma senza meriti correntizi, o addirittura da far fuori perché non abbastanza nemico del centrodestra.
L'espulso di ieri era, nel novero della magistratura organizzata, il ras della fazione considerata di centro-sinistra o moderata. Come tale, essendo quella corrente assai forte e flessibile, Palamara è diventato prima presidente dell'Anm e quindi eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Com' è salito a quei vertici? Grazie a quali metodi? Di certo non è la pecora nera circondata da velli nivei di agnelli da latte. Le intercettazioni - quelle che almeno sono state pubblicate sui quotidiani e sui siti internet - non rivelano la bassa etica di un singolo magistrato: lui. Esse manifestano l'esistenza di un sistema. Palamara, oggi trattato come un cane morto dai colleghi che prima lo aizzavano a mordere i loro rivali per un posto a Torino o a Palermo, era il mozzo di una ruota. Il mozzo funziona se ci sono i raggi che lo congiungono al cerchio. E che convergenza di intenzioni e di meccanismi tra il mozzo e i raggi così da far girare la ruota e far muovere la bicicletta. Non è marcio il mozzo e basta. Bisogna cambiare la ruota. Revisionare la bicicletta. Ma la bicicletta non può riformarsi da sé. In democrazia se un potere è marcio, toccherebbe al popolo sovrano. attraverso il Parlamento, provare a risanarlo. Ma con questo Parlamento è impossibile.