Regola italiana: guadagnare molto faticando poco
Oggi come ieri la classe politica italiana è sotto i riflettori per problemi di corruzione. Quello che più mi colpisce è la somiglianza della Seconda Repubblica con la Prima. Certi membri della Casta molto spesso sembra che si ritengano al di sopra della legge, amministrando il bene pubblico per i propri fini. Come uscirne? Patrizio Pesce Livorno Bella domanda, caro Pesce. Risposta: non lo so. E temo che nessuno lo sappia. Per meglio dire: qualche idea ci sarebbe pure. Il difficile è metterla in pratica. Novanta anni fa, nel 1921, Giuseppe Prezzolini scrisse un libro illuminante. Si chiama “Codice della vita italiana”. Ognuno di noi dovrebbe leggerlo e farne tesoro. All’epoca in Italia c’era ancora il re, la Seconda Guerra mondiale non era neppure all’orizzonte, poche industrie, molti campi coltivati, niente partitocrazia. Un’Italia diversa. Eppure, a quasi un secolo di distanza, pare che nulla sia cambiato. Vuol dire che certi difetti, certe inclinazioni, certi vizi, ce li abbiamo proprio dentro, ce li portiamo appresso, come la carnagione un po’ più scura di quella dei nord europei, come i tratti genetici. Scrisse Prezzolini: in Italia «tutto ciò che è proibito per ragioni pubbliche si può fare quando non osta un interesse privato. Nei vagoni dove è proibito fumare tutti fumano finché uno non protesta». Scrisse anche: «C’è un ideale assai diffuso in Italia: guadagnar molto faticando poco. Quando questo è irrealizzabile, subentra un sottoideale: guadagnar poco faticando meno». Siamo fatti così, cioè abbastanza male. All’estero, almeno nei Paesi a noi più vicini, nessuno mai si sognerebbe di fumare per strada una sigaretta e di gettare per terra il mozzicone. Non si può, è scorretto, è contro la legge. Noi no. Noi insozziamo, tanto qualcuno arriverà e pulirà. Noi calpestiamo, non solo le aiuole. Scegliamo la strada più semplice, più comoda. Vogliamo il massimo e siamo disposti a dare poco. Per ottenerlo, siamo anche disposti a infrangere qualche divieto. Poi ogni tanto ci svegliamo e pretendiamo che i politici siano diversi da noi che li abbiamo votati. Mi sembra difficile. E dunque, per uscirne, dobbiamo innanzitutto cambiare noi stessi, migliorarci, studiare, correggere i vizi. E qui le cose si complicano: se dopo novant’anni siamo più o meno al punto di partenza, immagino che per percorrere qualche centimetro di strada ci vorranno altri novant’anni ancora. Forse. mattias.mainiero@liberoquotidiano.it