Dilettanti allo sbaraglio
Pierino la pestefa infuriare perfino Fini
Di Dino Piero Giarda, classe ’36, economista di grido - Cattolica, Princeton e Harvard- plenipotenziario ministro dei Rapporti col Parlamento vale la definizione che usava Montanelli per Montale: «può fissarti per un’ora di seguito e non capirai mai se sta cercando sul tuo volto una liscia superficie per accarezzarla o l’incavo più adatto ad appoggiarvi la canna di una rivoltella...». La differenza sta nel fatto che Giarda è un allegrone, non resiste alla tentazione di spararti una battuta. Mai. Giarda è una betoniera di battute. Le fa sempre e comunque. In qualsiasi luogo e posizione. Ieri, per esempio, alla Camera, nello scivolare tecnicamente su un maxiemendamento al ddl anticorruzione che non poteva essere proposto, il ministro s’è addossato la responsabilità dell’ennesimo slittamento del ddl stesso, sospirando: «Abbiamo un ritardo solo di 2 ore, che cosa volete che sia nella vita politica del Paese che ha una lunga tradizione di oltre 2000 anni?». Come dire: una cazzatella può scappare a tutti. Dai banchi del Pd, i bersaniani sudaticci e ansimanti per una legge invocata da eoni, l’avrebbero strozzato. Non pago, Giarda ha aggiunto: «Colpa mia, perchè sono un ministro inesperto. Visto che il testo presentava problemi di ammissibilità avrei dovuto avere l’intuizione di porre la questione di fiducia su 3 articoli separati». Per la qual cosa, un altro temerario dagli banchi del Pdl è stato piacevolmente invaso dalla voglia di estrarre un fucile di precisione e mirare in mezzo alle orecchie. Che tra l’altro, vista la possanza dei padiglioni auricolari, è facile, per fare una battutaccia alla Crozza. Un altro deputato ha allargato le braccia: «...Ma come non aveva detto che uno più veterano di lui non esiste? Non aveva detto: ho passato sei finanziarie, cinque manovre, la riforma delle pensioni del ’95. Non mi impaurisce più niente e nessuno?...». Sì, l’aveva detto. Al Corriere della sera che l’intervistava sull’escalation dei suoi errori in aula. Sempre imperlati di battute, naturalmente. Per dire, nel mezzo delle critiche alla festa quirinalesca per la festa della Repubblica Giarda guardando gl’invitati s’è rivolto a Napolitano: «Presidente, pensi! Potevamo mettere il ticket agli invitati, stasera...». Il presidente non aveva a portata di mano un kalashnikov. L’esperienza burocratica, si diceva. In effetti, tra i membri del governo in attività nessuno vanta l’esperienza di Palazzo di Giarda. L’uomo conosce praticamente i commessi di Montecitorio uno ad uno. Cinque anni da sottosegretario al Tesoro in sublime trasversalità -sotto Dini, D’Alema, Prodi, Amato- e nove anni come presidente della commissione tecnica per la spesa pubblica stroncherebbero un toro; a Giarda, invece, donano una corazza che gli consente di attraversare indenne qualsiasi contraddizione. E nel suo caso le contraddizioni sono parecchie. Per essere il vero uomo-ombra di Monti, l’ispiratore sottotraccia d’ogni strategia, d’ogni think-thank, brain storming e task force a Palazzo Chigi, nonchè l’ispiratore di una rigorosa «politica del silenzio con la stampa», be’, Giarda s’è esposto un tantino. In tutti i sensi. Giarda era partito l’entusiasmo di un ragazzino, trasportato in elicottero dei vigili del fuoco, messo piede nell’emiciclo, aveva intonato la Sonnambula bellinana. Da allora ha smesso di cantare (non di battuteggiare). Un giorno dichiara solennemente, a fianco di Catricalà, la partenza di liberalizzazioni che mai si faranno. Un altro esalta Befera, ma si mostra riottoso nel recuperare i capitali galleggianti in Svizzera e non dichiarati come fecero Germania e Inghilterra (2 miliardi all’anno ricavati). Il 7 dicembre rifiuta di rispondere alle interrogazioni durante il question time «mi sento in imbarazzo a leggere risposte su materia su cui non sono competente». E se è imbarazzo lui, figurarsi gli altri. Una volta verga vibrate missive sulla necessaria abolizione del valore legale dei titoli di studio -risparmiando, vivaddio, di citare il pamphlet di Einaudi sulla vanità degli stessi- , ma il proposito cade nell’oblio. Un’altra promette ai sindaci l’apertura sul patto di stabilità (con il solito humour: «Ho l’impressione che dovete ancora soffrire per qualche mesetto»); ancora sono lì che aspettano. Poi il capolavoro. Sentenzia che «la spesa pubblica è in calo», ma la spesa s’impenna a tal punto che si rende necessaria la mitica spending review. «È in corso l’autoanalisi dei singoli ministeri», dice. La frase ha un che di freudiano. Giarda è il massimo esperto di spending review, ma sul tema si becca perfino una sberla da Schifani che gli riferisce: «Si sbrighi, magari si faccia aiutare». Infatti il massimo esperto si fa aiutare. Dal consulente Bondi. Una sorta di auto- commissariamento per tagli già leggendari: «Ammonta a 100 miliardi la spesa pubblica potenzialmente aggredibile nel breve periodo; edè di 300 miliardi quella che richiede un intervento di lungo periodo...». Il periodo è lunghissimo, l’inerzia pure. «Sono solo un funzionario di Maria teresa d’Asburgo» continua a ripetersi Giarda. Solo che l’arciduchessa inventò il catasto per tassare le terre dei nobili, lui non è riuscito a limare nemmeno lo stipendio di un commesso di Montecitorio, 9mila euro al mese, forse perchè li conosce uno ad uno. Altra atout di Giarda: le gaffes. Nel primo vero intervento alla Camera cita un «ordine del giorno Mecacci & C» beccandosi il cazziatone da Fini «dottor Giarda, sia più rispettoso» (e quanto dev’essergli pesato quel “dott.”). Poi chiama il deputato Rosa Calipari “signora” e non “onorevole”, correggendola come una sua laureanda. Con Elsa Fornero -un clangore di simpatie- si supera. Durante un convegno della fondazione Italianieuropei viene invitato dalla ministra ad occupare la sedia vicino a lei. Giarda fa cenno: «C’è la tua borsa...». Fornero gliela sposta, ma Giarda ignora il beau geste, e rimane fisso al suo posto come un colonnello prussiano. «Sono un po’ miope...», ribatterà. Una battuta lo seppellirà. Forse l’ha già fatto. di Francesco Specchia