L'editoriale

La crescita c'è,ma degli statali

Nicoletta Orlandi Posti

Ieri Mario Monti è tornato a parlare di spending review, termine inglese con cui il presidente del Consiglio ci vorrebbe dare a bere l’idea che si stia occupando di ridurre la spesa pubblica. Perché non usi le equivalenti parole italiane, essendo lui capo del governo con base a Roma e non di quello di sua maestà britannica, è un mistero. Tuttavia l’arcano ancor più oscuro riguarda le misure che l’esecutivo intende varare. Secondo quanto riferito dal premier, a breve ci saranno interventi «molto incisivi per quanto riguarda le strutture della presidenza del Consiglio e del ministero dell’Economia». Richiesto di fornire le cifre, l’ex rettore della Bocconi si è pure avventurato in una serie  di previsioni: venti per cento in meno di dirigenti nei due ministeri, dieci per cento in meno sul numero totale dei dipendenti. È questo è solo l’inizio,  ha dichiarato minacciosamente l’inquilino di Palazzo Chigi: «Vi dovete aspettare nelle prossime settimane altri resoconti del lavoro di semplificazione e razionalizzazione dello Stato: componenti storiche dell’attività della pubblica amministrazione verranno soppresse e le loro funzioni accorpate con altre agenzie». Al di là delle baldanzose promesse, il capo del governo non ha speso una sola parola per spiegare come magicamente farà sparire centinaia di persone, dato che un suo ministro, Filippo Patroni Griffi, titolare della Funzione pubblica, ha recentemente escluso che gli statali possano essere licenziati. La sensazione è che le dichiarazioni del presidente del Consiglio in realtà nascondano un gioco di prestigio tipo quello annunciato nelle stesse ore a proposito della vendita di alcune partecipazioni detenute dallo Stato. Fintecna, Sace e Simest saranno cedute alla Cassa Depositi e Prestiti e questa, secondo il premier, sarebbe una importante dismissione del patrimonio pubblico. Ma in verità Monti vende con la mano destra e ricompra con la sinistra. Stessa cosa probabilmente accadrà con i dipendenti del ministero dell’Economia e con quelli di Palazzo Chigi, i quali finiranno per essere trasferiti ad altro incarico o, se va bene, diminuiranno solo perché mandati in pensione, come già era previsto. Che si tratti di furbizia e di un maldestro tentativo da parte del governo di dimostrare che non sa soltanto tassare ma anche usare le cesoie, lo certifica una notizia che arriva dalla Sicilia. Mentre Monti annunciava la riduzione di poche centinaia di dipendenti pubblici, il governo isolano varava una legge per assumere altri 20 mila impiegati, un’infornata di personale senza alcun concorso che consentirà di stabilizzare, con contratto a tempo indeterminato, un esercito di precari. Mentre alle Regioni che non sono in bancarotta è richiesto di rispettare il patto di stabilità e impedito di assumere, cosicché nonostante abbiano i soldi non possono spenderli, nella libera (dal conto economico) repubblica autonoma siciliana tutto è consentito, anche di moltiplicare i dipendenti in vista delle imminenti elezioni. Non importa che a Palazzo dei Normanni già lavorino 20 mila persone, sette volte di più di quelle in forza al Pirellone, sede della Regione Lombardia. Nemmeno risulta di impedimento che al Comune di Palermo, appena espugnato da Leoluca Orlando, siano accasati altri 25 mila mezzemaniche, diecimila in più di quelli in servizio nel Comune di Milano, città che però ha il doppio degli abitanti rispetto al capoluogo della Trinacria. Nonostante la spending review e i limiti imposti dalla crisi, la primavera siciliana procede indisturbata, soprattutto quando c’è da spendere e da assecondare le clientele. E Monti? A quanto pare il presidente del Consiglio non ha niente da dire. Ieri è stato muto come un pesce, preferendo parlare dei tagli prossimi venturi e di dismissione dei beni dello Stato. La spesa nel frattempo può correre indisturbata, come pure il debito pubblico. A Fallimonti bastano gli annunci. I tagli per ora possono aspettare. di Maurizio Belpietro