L'editoriale

Parmacotti: Pdl e Pd sono da rottamare

Nicoletta Orlandi Posti

Immaginiamo che oggi le pagine dei quotidiani fiancheggiatori della sinistra ridonderanno di articoli inneggianti alla vittoria progressista e, al tempo stesso, di de profundis per il Popolo della Libertà e la Lega. I candidati del Pd e, più in generale della coalizione rossa, ai ballottaggi hanno conquistato Como, Monza, Asti, Alessandria, Belluno e Palermo, che prima erano amministrati dal centrodestra, riprendendosi però anche Taranto, Genova, L’Aquila, Piacenza e Sesto San Giovanni: un numero di successi che indurrebbe chiunque a cantare vittoria. Fossimo nel segretario del Partito democratico eviteremmo però i brindisi e i toni trionfalistici, in quanto per come la vediamo noi quella di ieri è tutt’altro che un’apoteosi. Intendiamoci, qui non vogliamo nascondere che Bersani e compagni si siano presi un certo numero di città storicamente moderate, per di più concentrate in quel Nord che fino a ieri era considerato il cuore pulsante del centrodestra e la spina del fianco del centrosinistra. Né si intende negare che il Pdl e la Lega con queste elezioni amministrative abbiano preso una sonora batosta, di dimensioni assolutamente non paragonabili a quelle patite in passato, che pure non furono lievi.  Lo schieramento che fino a pochi mesi fa era maggioranza di governo e poteva vantare l’amministrazione di città economicamente strategiche come Como o Monza, oggi è semplicemente annientato, spazzato via, ridotto ai minimi termini, addirittura - diremmo - ininfluente. Un fenomeno che ha ovviamente  diverse spiegazioni:  in primo luogo gli errori compiuti dal governo Berlusconi dal 2008 in poi e in secondo (ma forse a livello locale vale più del primo) come sono state amministrate alcune delle città perdute. Si può dire che Monza, Como, Parma e Palermo sono un monumento all’incapacità dei moderati di realizzare quel programma di efficienza, tagli agli sprechi  e alle liti politiche che dovrebbe essere alla base della buona amministrazione ed era stato promesso agli elettori? Non solo lo si deve dire, ma probabilmente ciò che è accaduto in quelle città va studiato affinché non si ripeta mai più, pena l’interdizione perpetua dalle cariche pubbliche di chi si ispira ai principi moderati. Dato al centrodestra ciò che è del centrodestra - e la sconfitta è principalmente sua nonostante ciò che si affanneranno a dimostrare i cosiddetti esperti di flussi elettorali d’area - ci sia però ora permesso di dire anche perché i presunti vincitori hanno poco o nulla di cui rallegrarsi. Nella maggior parte dei casi, non c’è stato un successo del Pd, dell’Idv o di Sel: c’è stato semmai il trionfo di un candidato, quasi sempre alternativo a quello del partito progressista di maggioranza, se non addirittura in contrasto. Basti pensare a Genova, dove ha vinto Marco Doria, un professore estraneo agli apparati del Pd, da sempre noto come il marchese rosso, il quale ha sbaragliato le candidate di Bersani. Non è andata meglio a Belluno, dove un ex Pd ha battuto la rappresentante ufficiale di Pier Luigi, o a Palermo, città in cui si sono fatte le primarie di coalizione e dove il centrosinistra al completo è stato sconfitto da Leoluca Orlando, un avanzo di nuovo datato 1995, anno della sua prima elezione a sindaco. Del resto, che per i partiti di Bersani o Di Pietro le amministrative non siano state un successo è certificato dal numero di voti raccolti: un terzo in meno per il Pd, quasi la metà per l’Idv. Se tutto ciò non fosse sufficiente a convincere i compagni a non festeggiare, c’è poi il caso di Parma, che volutamente abbiamo tenuto per ultimo. Se - dopo una giunta di centrodestra cacciata con i forconi e un bilancio comunale che fa acqua da tutte le parti tanto è pieno di debiti -  il Pd e la sinistra tutta non riescono a vincere ma si fanno battere dal primo venuto, anzi da un perfetto sconosciuto, vuol dire che qualcosa sta succedendo. La campana non suona solo per il Popolo della Libertà o la Lega: i rintocchi riguardano anche la gloriosa macchina da guerra progressista. Parma è in Emilia, terra di compagni e cooperative: eppure, neanche avendo alle spalle l’apparato di una regione rossa, il Pd è riuscito a vincere. Segno per gli elettori che certe facce hanno fatto il loro tempo, a cominciare da quella del presidente della Provincia emiliana, Vincenzo Bernazzoli, funzionario buono per tutte le stagioni, dalla Cgil alla gestione della cosa pubblica. Come possibile che per batterlo sia bastato un Pizzarotti qualsiasi, uno che fino all’altro ieri neanche si occupava di politica e aveva a sostenerlo solo la moglie e sei mila euro di budget? Come si spiega che, nonostante venga demonizzato o ignorato (ricordate le parole di Giorgio Napolitano, uno che non si accorge mai di nulla, che si tratti dei carri armati in Ungheria  o di Beppe Grillo), il Movimento cinque stelle sia passato in poche settimane dal 3 al 12 per cento su scala nazionale? Senza contare che l’altissimo livello di astensionismo è uno schiaffo appioppato dagli elettori in faccia a tutti, anche ai Democratici.  Nonostante Bersani e compagni fingano di non vedere e facciano orecchie da mercante, le risposte in realtà sono facili. Ciò che è successo tra domenica e lunedì si decifra riconoscendo che tutti i partiti tradizionali sono Parmacotti, prosciutti buoni solo per essere appesi e affumicati a fuoco lento. E forse neanche tanto lento. di Maurizio Belpietro