L'editoriale
Giocate al tagliaspese
Devo rivelare un piccolo retroscena redazionale. Lunedì scorso, quando si è trattato di commentare la nomina a super commissario alla spesa pubblica di Enrico Bondi, a Libero si è discusso molto. In particolare sulla scelta del titolo: l’ala radicale del giornale propendeva per un secco «Ci hanno preso per il culo»; quella moderata, nella quale mi ci metto anch’io, era per un più castigato «Presi per i fondelli». Dovendo parlare di professori, che sono per definizione sobri, abbiamo infine optato per la soluzione più elegante. Con il senno di poi probabilmente avremmo fatto meglio a decidere per la versione meno casta, la quale, sebbene un po’ volgarotta, aveva il merito di esprimere a pieno ciò che sta accadendo da quando al governo ci sono i tecnici. Noi pensavamo che il fondo (schiena) fosse stato toccato durante l’ultima riunione del Consiglio dei ministri, con l’affidamento della missione di tagliare i soldi alla Casta a un tipo come Giuliano Amato che della Casta fa parte da almeno 25 anni, ma ci sbagliavamo, perché Monti e colleghi sono riusciti a far di meglio. Ieri infatti si sono rivolti direttamente agli italiani, chiedendo dal sito internet di Palazzo Chigi di segnalare come e dove affondare il bisturi, ma comunicando però allo stesso tempo, per bocca del sottosegretario Antonio Catricalà, che il piano per la riduzione degli sprechi sarà pronto in quindici giorni. Evidentemente le due cose non vanno di pari passo, perché se in due settimane verranno resi noti i tagli non c’è ragione di chiedere l’aiuto da casa, che - come nel programma di Gerry Scotti, Chi vuol essere milionario - si sollecita solamente quando non si sa che pesci prendere. O il piano c’è e non serve che gli italiani diano il loro contributo, oppure non c’è e sono necessarie le segnalazioni dei privati. Nell’uno e nell’altro caso l’esecutivo mostra di essere un po’ confuso. Dopo mesi in cui i ministri si sono segnalati per l’ostentata sicumera, ora il loro procedere appare incerto e perfino contraddittorio. Ciò che fino a ieri sembrava sicuro, negli ultimi giorni è divenuto vago. La serenità d’animo con cui venivano affrontati i problemi a sua volta ha lasciato spazio a una buona dose di nervosismo. Eppure non c’era bisogno di super commissari, né di super consulenti per stabilire come impugnare le forbici. Con un po’ di buona volontà sarebbe stato sufficiente fare un giro in biblioteca, prendendo a prestito i libri che in materia di spesa pubblica sono stati pubblicati nell’ultimo ventennio, a cominciare da quelli scritti da Raffaele Costa, il deputato liberale noto per le sue battaglie anti-sprechi. Dal primo all’ultimo costituiscono un’enciclopedia delle maniere in cui si buttano i soldi dei contribuenti. A firma di Stella e Rizzo, Porro e Cervi, Giordano e Liviadotti si trovano elencate tutte le follie del bilancio statale. Norme e consuetudini con cui per decenni si sono bruciati quattrini pubblici, un falò che ancora continua. Ma perché, se è tutto noto, i professori non usano quei testi scritti e li fanno propri? Semplice. Un conto è dire dove bisogna intervenire, un altro è farlo. Diceva benissimo l’altro giorno su Libero il professor Luca Ricolfi: tutti sanno dove se ne vanno i soldi, ma nessuno sa come fermare il flusso senza rischiare l’impopolarità. Già, perché il tema è il seguente. Se spende troppo, l’Italia deve essere messa a dieta, ma, siccome non tutto il Paese ha bisogno di rimanere a digiuno, serve stabilire per chi è giunta l’ora di adeguarsi a regimi alimentari più contenuti. Per Ricolfi al Nord la spesa pubblica è già a stecchetto, mentre al Sud ci si abboffa e volendo si potrebbe risparmiare il 40 per cento. Come mai non si fa? Per non rischiare la rivolta. Siccome ogni intervento suscita la reazione delle categorie o delle Regioni colpite, nessuno ha voglia di prendersi la patata bollente, neanche i tecnici. E allora via con i super tecnici, sperando che almeno loro abbiano voglia di metterci la faccia e rimetterci il sonno. Ingenuamente, noi pensavamo che gli esperti, a differenza dei politici, avrebbero governato senza guardare in faccia a nessuno. Invece scopriamo che l’esecutivo tecnico, al pari di quelli normali, procede con il bilancino e soprattutto con i sondaggi, decidendo solo ciò che piace alla gente che piace. Più che il governo dei professori sarebbe dunque meglio chiamarlo il governo dei furboni. Che da un lato predicano bene, ma dall’altro razzolano male. E come razzolino lo dimostra un piccolo episodio accaduto ieri al Senato, quando si è trattato di votare un emendamento che ripristinava le pensioni d’oro degli alti papaveri dello Stato. L’esecutivo aveva dato parere favorevole e se la norma non è diventata legge lo si deve al fatto che Pdl, Lega e Italia dei Valori si sono messi di traverso, bocciando la furbata. Perché sarà anche vero che i professori non hanno un partito alle spalle, ma hanno una famiglia piuttosto allargata: quella della nomenclatura di Stato. Ps. In serata è arrivata in redazione una dichiarazione del presidente del Consiglio, il quale, a proposito delle riforme, pare abbia dichiarato: non aspettatevi molto. Quando si dice l’uomo giusto per infondere fiducia al Paese... di Maurizio Belpietro