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Obama fa campagna elettorale anche in Afghanistan
Obama ha fatto una tappa della sua campagna elettorale nella base militare in Afghanistan. L’1 maggio, ovviamente, perché era il primo anniversario della eliminazione di Osama Bin Laden. Dopo aver passato la settimana scorsa a dire che non avrebbe politicizzato l’episodio, che tutti peraltro hanno riconosciuto essere stato il momento più positivo della sua presidenza, è spuntato in tv a reti unificate quando era sera a Washington e New York, e le 4 del mattino a Kabul. Una levataccia, ma ne valeva la pena. Oltre a gloriarsi (senza spartire immodestamente il merito con tutti quelli che, con lui e prima di lui, avevano lavorato per raggiungere questo obiettivo) , Barack ha anche fatto il punto sull’Afghanistan. Era da giugno del 2011 che il presidente non intratteneva l’America su una guerra che, ancora oggi, vede schierati a Kabul e dintorni 90 mila soldati Usa. E sempre con l’occhio ai sondaggi, che dicono che il 60% del paese non è favorevole alla prosecuzione della missione, ha praticamente detto che la guerra è finita. Ha spiegato che i militari stanno già tornando a casa, e che il ritiro delle truppe combattenti si concluderà entro il 2014 (Poi ne staranno comunque migliaia a fare gli “istruttori”, magari per decenni come in Corea del Sud, ma questa è una patata per altri presidenti e altri Congressi). Barack ha anche annunciato di aver firmato un patto con il presidente Karzai per la transizione dei poteri e dei doveri del mantenimento dell’ordine in tutte le province del paese, “per un futuro in cui gli afghani sono responsabili per la sicurezza della loro nazione”. Ha detto pure, facendo fare un sobbalzo a tutti, che “la mia amministrazione è stata in contatti diretti con i Talebani. Abbiamo detto in chiaro che essi possono essere parte di questo futuro se rompono con Al Qaeda, rinunciano alla violenza e ubbidiscono alle leggi afghane. Molti membri dei Talebani – da soldati e leaders – hanno indicato un interesse nella riconciliazione”. A sentire Obama sembrava di assistere ad un altro film. Infatti, nel vero Afghanistan, poche ore dopo il suo discorso ci sono stati almeno 7 morti per attacchi dei Talebani. Volendo come primo obiettivo dire agli elettori che il conflitto è sostanzialmente finito, e che dopo l’Iraq lui ha saputo chiudere anche la pratica di Kabul, il presidente ha messo la data di scadenza alle operazioni belliche con i nemici, come se la pace non è una cosa che si deve fare in due. Ma adesso, concesso agli avversari il vantaggio dell’annuncio del ritiro a data certa, la stessa linea che i democratici avevano chiesto a Bush per Bagdad e che lui respinse dimostrando poi di aver avuto ragione, Obama non ha alcuna leva per convincere i Talebani alla “riconciliazione”. Anzi, la strategia americana consentirà ai ribelli di moltiplicare le vittime tra i civili e le stesse truppe Usa, proclamando a tempo debito, quando i marines se ne andranno, che hanno vinto loro, come contro i russi. Del resto, nel lungo discorso di 1556 parole, il comandante in capo Usa non ha trovato una frase dove inserire l’unica parola che conta davvero quando si parla al paese e alle truppe in missione, con lo sfondo dei carri armati come ha fatto lui: vittoria. Bush disse “ missione compiuta” quando non era tempo, pagò il fio, se ne pentì, ma poi portò a termine davvero la missione. Obama fa la guerra ma non pensa a vincerla, e tantomeno cerca di convincere gli americani, civili e in divisa, che i loro sacrifici valgono i soldi e il sangue spesi. I 1257 soldati Usa morti in Afghanistan sotto il suo comando in 39 mesi sono circa il 69% di tutte le vittime dei 10 anni di guerra. I tre anni di Obama sono infatti stati quelli con più morti del decennio: 303 nel 2009, 497 nel 2010, 399 nel 2011. Ciò si spiega con il fatto che, spinto dai generali e avendo proclamato quella afghana la “guerra giusta” in polemica con quella in Iraq, Barack ha incrementato di diverse decine di migliaia il contingente militare a Kabul nei suoi primi due anni. Ma mentre li mandava, preparava già il loro rientro con la strategia del “pacifista” che si trova nel posto sbagliato e non vede l’ora di andarsene. Vittorioso o meno poco conta. di Glauco Maggi Twitter @glaucomaggi