I simboli del declino

In auto da Trento a Verona sulla strada della secessione

Andrea Tempestini

Capire che cosa si agita nella pancia del Veneto, perché centinaia di migliaia di persone si affannino a votare per un referendum indipendentista farlocco, può essere meno complicato di quanto si pensi. Basta prendere un’auto (sconsiglio la moto, tra un istante capirete perché) e percorrere la statale del Brennero in direzione Nord-Sud, nel tratto Trento-Verona. Esattamente in corrispondenza del cartello che segna i confini tra le due province, la strada, fino a quel momento liscia e scorrevole, si trasforma di botto in un nastro d’asfalto rugoso, spaccato, pieno di buche di varia profondità, come scavate da bombardamenti successivi e di differente intensità. Ripeto per i distratti: si tratta di una strada STATALE, che per sua natura dovrebbe avere, diciamo così, una coerenza interna dall’inizio alla fine. E invece no. È come ci fosse una barriera invisibile che trattiene i quattrini: di qua bitume tirato a lucido, staccionata ridipinta, erba falciata, fiorellini; di là i segni di una decadenza che viene affrontata con alterne fortune. Da anni. Eppure il Veneto è ricco. O meglio: produce moltissima ricchezza, incomparabilmente di più del pur virtuoso Trentino. Ma i frutti del lavoro di entrambi vanno a Roma, una madre che non si comporta allo stesso modo con tutti i suoi figli. Difatti da lì ritornano spartiti in modo assai diseguale: una larga fetta del tesoro veneto, già preventivamente decurtato della quota “spettante” ad altri fratelli disgraziati o fannulloni, viene indirizzata alla vicina Provincia a statuto speciale, che vede così moltiplicato il gruzzolo che aveva consegnato alla genitrice; mentre il figliolo più industrioso, quello che porta i soldi in casa e magari dà pure una mano a sbrigare le faccende domestiche, riceve metà di quanto avrebbe legittimamente guadagnato. Per soprammercato, mentre vede premiato l’ultimogenito - perché “è l’ultimo...” - e pure quell’altro che passa la giornata al biliardo o a correre dietro alle donne - “ma è così simpatico” - il tapino si vede anche dare dell’evasore (alla faccia di tutte le statistiche di fedeltà fiscale che collocano altrove, ben più a sud, i picchi del fenomeno) e del razzista (malgrado sia ai primi posti delle classifiche per l’integrazione). Sarà rozzo, sarà banale, ma a furia di percorrere quella strada “statale” qualcosa scatta nella testa. Soprattutto se nel frattempo la crisi ha cominciato a mordere davvero, hai visto aziende chiudere, altre fuggire oltre confine, imprenditori uccidersi, giovani rimasti senza lavoro prendere la via dell’esilio, facendo riaffiorare il ricordo ancora troppo recente di un’epoca di emigrazione coatta di massa. Allora, ciò che prima pareva solo ingiusto diventa intollerabile. E, prima o poi, viene voglia di fare qualcosa per ribellarsi. È un processo lento. Perché i veneti sono costituzionalmente pazienti. E sono straordinariamente individualisti. Mobilitarli è un’impresa; tenerli insieme per un tempo sufficientemente lungo da produrre un risultato, prima che si sciolgano in mille rivoli separati tra loro da sfumature che nessun forestiero riesce ad apprezzare, è un miracolo. E così alla fine, vedrete, non succederà nulla. Anche se questa è una terra dove i tifosi dell’Hellas Verona canzonavano quelli del Chievo, un paese trasformato in un quartiere dall’espansione della città, col coro: El Cèo zugherà in serie A quando i mussi volarà e poi sappiamo come è finita: da molti anni il Chievo calca i campi della prima divisione calcistica. Anche se è la terra dei Marco Polo. È una terra, insomma, di gente strana, che se si mette in testa qualcosa non sai mai dove può arrivare. Gente in genere troppo impegnata a lavorare per saper fare politica. Tanto che anche ai tempi in cui era il granaio elettorale della Democrazia cristiana, il Veneto non è mai riuscito a esprimere un leader nazionale e di quell’immenso potere ha goduto in fondo solo delle briciole, seppur d’oro. Ed è riuscito a farsi scippare il marchio della Lega da Bossi e dai lombardi. E però è lo stesso popolo che ha dato vita alla Repubblica più longeva della storia, la Serenissima, poi abbattuta da Napoleone. Ma anche, e forse soprattutto, dai tradimenti. Non succederà niente, dunque. Però occhio. Perché è vero che gli asini si mettono a volare solo negli stadi. Ma nella vita reale a volte scalciano. di Massimo De' Manzoni