Il voto alle saudite? Era uno scherzo
Quando il re saudita Abdullah si era spinto a ipotizzare la concessione del voto alle donne, almeno nelle consultazioni locali, evidentemente non aveva fatto i conti con lo sceicco Abdel Rahman bin Nasir al-Barak, teorico della più rigida separazione fra i sessi, che sul suo sito internet si è espresso con una fatwa senza appello: «È vietato alla donna andare al voto perché imiterebbe in questo modo i miscredenti in una delle peggiori pratiche che il mondo islamico ha importato dall’occidente». Non bisogna dimenticare che, nei tribunali sharaitici, in omaggio al versetto 282 della Sura II del Corano, la testimonianza di un uomo vale quanto quella di due donne e lo stesso trattamento vige nel diritto di successione. Fondandosi sullo stesso principio, “rivelato” alla sura 4,11 secondo l’imam saudita «la legge islamica ha da sempre vietato alla donna di partecipare alla cerimonia di giuramento per la guida della comunità. Ciò significa che non le è permesso di scegliere o delegare, e il suo ruolo di consigliera è arrivato solo dopo la colonizzazione». Si potrebbe dedurne che il voto femminile potrebbe essere conteggiato almeno al 50%, una sorta di scheda singola, di fronte alla quale la preferenza espressa da un uomo si configurerebbe come una “bisvalida”? Nemmeno per sogno in quanto «il sistema elettorale è fondamentalmente corrotto e introdotto dai miscredenti per controllare le nostre società». Forse, dopo aver appreso che il premio nobel per la Pace era finito anche alla yemenita Tawakul Karman, che dal 2004 ha deciso di non indossare più il niqab e chiede alle altre donne di liberarsene, i dottori della legge wahhabiti devono essersi intimoriti e si saranno chiesti dove si andrà a finire di questo passo. Del resto si sentono chiamati alla jihad, non alla pace.