Narrativa
Adolescenza horror
Raul Montanari è uno degli scrittori italiani più attenti alle trame. Non c'è nulla delle sue narrazioni noir che avvenga per caso. Si può dire che abbia ormai edificato la sua narrazione intorno a una serie di punti fermi e ricorrenti. Non si smentisce anche nel suo ultimo romanzo La vita finora (Baldini e Castoldi, pp. 304 euro 17). È una storia che parte da presupposti molto contemporanei. Marco, il protagonista, è un trentacinquenne milanese rappresentativo della sua generazione precaria e non del tutto esente dal cinismo, provenendo da una famiglia della minima borghesia, ma avendo avuto la possibilità di studiare e di laurearsi (per quanto in discipline letterarie quindi poco spendibili sul mercato del lavoro). Si trova di fronte quella che non primo momento mi sembra una gradevole opportunità. Potrà insegnare materie letterarie in un paese sperduto dell’Alta Lombardia, attratto non solo da uno stipendio generoso, ma anche dalla possibilità di ritirarsi, almeno per un anno, dalla vita monotona e frustrante della grande città. Giunto nel microcosmo del paesello (mai nominato), si trova a poco a poco immerso fino al collo in una realtà umana e sociale inquietante. L’unica classe della scuola, un istituto privato retto da un preside debole e pusillanime, è composta da una dozzina di studenti, adolescenti nel pieno delle loro crisi identitarie. In questo caso, portate all’estremo. Come in una riedizione italica del Signore delle mosche, anche qui il gruppo è diviso in due. I buoni però sono perfino antipatici, non solo al protagonista, ma verrebbe da dire allo stesso autore. Molto più interessanti, come spesso accade, i cattivi, uno in particolare, tale Rudi, di 16 anni, ma già intellettualmente maturo. L’intelligenza di Rudi si sposa con la sua crudeltà. L’adolescenza è un'età terribile, non c’è dubbio, e lo è per chiunque. Ma qui assistiamo a un’estremizzazione dei ruoli, dalla ragazzina maliziosa a quella imberbe, dal ciccione con poco cervello destinato alla perpetua marginalità, fino al disturbato mentale conclamato che si crede vampiro. Non poteva mancare la figura del prete, contrappunto solido, anche se dubbioso, all’ateismo di Marco. Più noir che giallo (Montanari non è un giallista), il romanzo si appoggia anche alla figura del vicino di casa del protagonista, un uomo che viene dei Balcani e, lo si capisce subito, ha molto da nascondere. L’autore non si avventura più di tanto in una critica sociale o in una chiusa disamina sociologica. Libero il lettore di trovare fra i personaggi i simboli di contemporaneità. Certo non è uno spaccato di Italia ridente, le contrapposizioni fra ricchi e poveri vengono sottolineate con cura feroce, e una certa deriva destrorsa viaggia in comune con la prepotenza dei privilegiati. Un altro aspetto che Montanari non manca di sottolineare è lo sbando della cultura e dell’ideale di essa come elevazione dell’animo. Il suo è un grido estremo, una denuncia potente dell’oscurantismo. Molti insegnanti riconosceranno qui i propri sforzi inani nei confronti di classi di allievi sordi a ogni richiamo non solo della bellezza, ma della più elementare disciplina. Spalleggiati da genitori colpevolmente ignoranti, questi ragazzi, poveri di nozioni e di spirito, perlopiù non sanno nemmeno che cosa sia la lettura. E quindi, per interposto personaggio, lo scrittore esprime concetti ben noti a chiunque abbia mai tenuto una penna in mano. Ci sono milioni di persone che scrivono libri che nessuno leggerà mai. E le alterna a considerazioni come questa: “l’insegnante è un animale ibrido, preso a mezzo fra routine e creatività. I mestieri di routine aspirano alla creatività… I mestieri creativi anelano alla routine: non c’è Scrittore che non aspiri a sfornare pagine perfette senza travaglio…” Quella di Montanari è una voce unica. Non aspira a un genere, ma a un paradigma.