Narrativa italiana
Vita sconosciuta di un traditore seriale
L’incipit del romanzo di Crocifisso Dentello, La vita sconosciuta (ed. La Nave di Teseo) potrebbe tranquillamente essere studiato in una scuola di scrittura creativa, o di tecniche di scrittura, per la sua agghiacciante precisione chirurgica. “Mentre Agata rincorreva il suo ultimo respiro, sciogliendo il suo finale di vita in un sonno senza più risveglio, io me ne stavo genuflesso sull’erba umida del Parco Nord, profanato dal cazzo di un tunisino e accogliendo nella mia bocca, come in una torbida eucaristia, il suo seme di musulmano infedele”. Piuttosto esplicito, no? Da diverse settimane ho qui davanti a me questo libro secco, essenziale, disturbante. Rimandavo il momento di scriverne, anche se ne ho parlato altrove. E’ la storia di uomo che perde improvvisamente la moglie, e si trova solo e tormentato dai rimorsi. Lui quella donna l’ha tradita, e l’ha tradita con uomini a pagamento. Eppure il loro rapporto era solido, era duraturo, risaliva a molti anni prima, agli anni Settanta, quando si erano conosciuti, innamorati, sposati. Due proletari. Ernesto, milanese del quartiere popolare di Affori, che lavora in una fabbrica di vernici alla Bovisa, Agata, emigrata, o meglio fuggita dalla Sicilia, che va a servizio da una famiglia ricca di via Vincenzo Monti. Due solitudini che s’incontrano e cercano reciprocamente di curarsi, come sono spesso le storie d’amore. E, come avviene spesso alle storie d’amore, la loro è sfaldata dalla fatica quotidiana. Non resta che ribellarsi a quella condizione, alle minestrine e ai panini con la mortadella mangiati alla sera davanti alla tv, prima di crollare addormentati. E così ci sono le riunioni di partito, il partito comunista, dove Agata ed Ernesto si incontrano, e dove un certo Faenza, maschio alfa di una vagheggiata rivoluzione proletaria, di buona famiglia, cerca di convincerli a eseguire un omicidio in nome del popolo. E allora “Agata si era aggrappata a quel furore ideologizzato che ci coalizzava contro il mondo nell’illusione di coprire l’odore di detersivo che impregnava le sue mani sciupate…” E ancora: “L’estremismo politico fu per lei e per tanti della nostra generazione una mano di vernice per dissimulare voragini interiori. Ci si parlava sempre attraverso le idee, rinunciando a svelare se stessi, come se le idee nascessero da un universo neutro e non dal dolore di un vissuto”. Non so bene perché, ma Ernesto mi ha fatto venire in mente “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, di Oscar Wilde (anche lui omosessuale). Ernesto, come nell’originale inglese, l’Onesto. L’Ernesto del romanzo di Dentello onesto non è, perché è un fedifrago, come si vede fin dalla prima pagina, ha un animo da traditore, eppure, pagina dopo pagina, il lettore si chiede se non ci sia il modo di giustificarlo. Dopo la fabbrica di vernici, per lui c’è un altro lavoro di poco conto e non privo di umiliazioni, poi la disoccupazione, l’inerzia, l’abulia. E quel passato da pseudorivoluzionario che gli torna su come un pasto mal digerito. Come ogni protagonista che si rispetti, in lui convive un dilemma, ma è proprio la sua vocazione a tradire a tenerlo in vita. Non posso e non voglio dire di più, per non scoprire le carte. Il libro è riuscito, spiazzante quanto basta. E fa ben sperare nelle doti di questo giovane scrittore di cui, spero, sentiremo ancora parlare.