Alla ricerca della felicità perduta
L’ultimo lavoro di Marco Franzoso, Mi piace camminare sui tetti (Rizzoli) è stato concepito otto anni fa, ma ha visto la luce solo da poco. È un romanzo consistente e complesso. Narra la storia di una famiglia italiana, la famiglia Speranzon, che vive in una Padova (mai citata ma riconoscibile) e ama passare le vacanze estive alla foce del Tagliamento, su una spiaggia che negli anni Settanta era formata da dune alte anche otto metri. Un mondo magico in cui il protagonista, Bruno, cresce senza pensieri, fino a quando una tragedia non irrompe nella vita di tutti. Il fratellino Pietro, di pochi anni, muore annegato. Una fatalità? Una distrazione della madre? Lo si scoprirà verso la fine del libro. Intanto, la vita famigliare subisce un contraccolpo. Bruno ha una sorella, Emma, un padre commercialista, ma che preferisce sparire, e uno zio, il più equilibrato di tutti, che coltiva il sogno di costruire un villaggio turistico sulla costa. La scrittura di Franzoso (autore di diversi romanzi, il più noto dei quali è Il bambino indaco, del 2012) procede per descrizioni minuziose dell’ambiente e del contesto sociale da quegli anni in poi, fino a oggi, e la narrazione si avvale in modo frequente dei dialoghi, dialoghi spesso rotti e lapidari, stringati all’essenziale. I piani narrativi sono due e riguardano il passato della famiglia e un presente in cui Bruno si dibatte fra studi svogliati all’università, lo sballo notturno con gli amici e l’inizio di una collaborazione con lo zio nel campo dell’edilizia, iniziando dal basso come muratore e poi trovando una sua strada (intuibile dal titolo). Emma nel frattempo entra in una certa confusione mentale, cercando sollievo ai suoi malesseri nelle filosofie orientali, o perlomeno nella loro derivazione di casa nostra, spesso ridicola. Ma il cuore del libro sta forse nella lenta e accurata raffigurazione della possibile disgregazione di questa famiglia, che nel tempo deve resistere a duri colpi, con una madre la cui personalità è pericolosamente in bilico tra ragioni del cuore e disturbi della mente. Franzoso ha impiegato anni a costruire questa storia (e non per caso qui viene in mente la parola “costruire”), perché continuava a indagare, come in un’ossessione, ogni più piccolo particolare, ricostruendo la topografia dell’epoca, i nomi delle piante e degli animali, le vicende di cronaca, e tutto quello che concerne l’edilizia, dalle fondamenta ai tetti. Un lavoro che nell’economia della narrazione non è mai pesante, ma si sente in filigrana. Una precisione che avrebbe potuto distogliere dalla vicenda, e invece la arricchisce. Al di là delle avventure e disavventure personali di Bruno, si sente anche molto la nostalgia per una idea di famiglia che cede invece il passo a una “illusione della famiglia”. E per tenere insieme una famiglia ci vuole senso di responsabilità e sacrificio. Ci vogliono le fondamenta e, per l’appunto, un tetto sulla testa. La storia di Bruno è un’educazione, una formazione alla vita adulta. Solo un paio di altre cosa vanno dette: la prima che la lettura risultera molto scorrevole nonostante le 350 pagine del testo; la seconda che qua e là affiora un tenace senso dell’ironia, intesa come ironia della vita, quando le cose accadono per paradosso e in modi inaspettati. Non siamo noi a condurre la danza, ma un destino indecifrabile. Noi possiamo solo difenderci al meglio e, nei momenti buoni, goderci il panorama, possibilmente da una posizione elevata.