Mary Barbara Tolusso
La morte è oscena? E allora facciamo l'amore
Un romanzo che, una volta finito, non lasci al lettore l'impressione di aver allargato la propria sfera di conoscenza è un romanzo inutile. Sarà per questo che mi è piaciuto, pur lasciandomi inquieto per giorni, quello della scrittrice e poetessa triestina Mary Barbara Tolusso. S'intitola L'imbalsamatrice e non è appena approdato in libreria, non è una novità da bancone, è uscito nel 2009 per l'editore romano Gaffi, uno che tra l'altro compie un onorevolissimo lavoro di ricerca e sperimentazione non sempre compreso e apprezzato dalle minicorporazioni degli intellettualoidi a gettone. Ma bando alle polemiche scioccherelle e addentriamoci in questo libro che potrebbe essere uscito due giorni fa, non risentirà mai del tempo e dovrebbe essere adottato nelle scuole, se non in quelle dell'obbligo, almeno in quelle di scrittura. Ovvio che non sarà così, perché appena qualcosa è scritto bene, cioè contiene una storia, un linguaggio e un paio di idee forti e innovative viene subito considerato non abbastanza contiguo alla moda corrente di condire il nulla da dire con paroloni scelti con cura in modo da generare nel lettore attonito il dubbio che dietro ci possa essere un pensiero profondo e persino insondabile. Qui invece si parla di una giovane tizia chiamata N. che di mestiere prepara i morti per i funerali. Essendo un'ottima professionista, fa benissimo il suo lavoro, prende questi cadaveri, in qualunque condizioni essi siano stati falcidiati, e restituisce loro un'aria di presentabilità. Poi, nel tempo libero, ha delle avventure sessuali sia con uomini, sia con altre donne. Eros e Tanatos alla grande, insomma, con tutto quel contorno di grottesco che la morte ci riserva quando ci riduce a quell'ammasso di ossa, cartilagini, sacche, organi interni e fluidi corporei, forma in rapida decomposizione, subito de-formata dall'inesorabile procedimento biochimico dell'estinzione, perlomeno della riduzione ai minimi termini. Perfino un necrofobo come me, uno che vorrebbe che al momento della dipartita il corpo semplicemente si dissolvesse come un anello di fumo, perché la vista, l'esistenza stessa di un cadavere non la posso neanche concepire, perfino io sono rimasto ipnotizzato dai morsetti per chiudere le bocche ai defunti, dalle iniezioni di formalina, dalle facce risagomate in stampi di silicone. Tutto questo avviene a Trieste, una città dove, pare, ci si frequenta per giri chiusi, trovandosi e ritrovandosi negli stessi bar. Dove ci sono bravi ragazzi cattolici e scout come tale Livio Torossi, non si capisce se sfigato o furbissimo, o semplicemente perverso. La morte è un'uscita di scena, perciò è oscena. "Quando si assiste alla morte di una persona che amiamo, l'amore non è sufficiente per raccogliere il cadavere". La povera N. fa quello che può, ed è meglio che lo faccia bene, visto che tocca a lei, è lei la professionista. "La morte impone fermezza e crudeltà. Non è cinismo, è la morte". E invece lei è commovente, innamorata e presa in giro da un certo Giulio, un professore indecifrabile, con amiche come Beatrice, classica arrivista provinciale, assatanata da tutti i simboli della borghesia benestante. C'è così tanto, in questo romanzo, ci sono dialoghi perfetti, c'è un ritmo incalzante che non ti molla mai, ci sono lievi digressioni e citazioni cinematografiche e letterarie. Ma quello che gli dà valore è che non c'è niente di gratuito, niente di superfluo, niente di posticcio. E supera alla grande la "prova cocomero": apritelo a una pagina qualunque; cominciate a leggere; apritelo a un'altra pagina qualunque; leggete, e così via. Eseguite insomma il carotaggio che favorisce la selezione quando si affronta la quotidiana valanga delle velleità messe su carta. Qui non ci sono punti deboli. Nel caso, li avrebbe spazzati via la bora.