La Rai della Lei fa "l'inchino" al potere
Manca solo il premier Mario Monti (al quale spetta l'ultima parola) e il giro di Monopoli è completo. Già, perché Lorenza Lei, quasi fosse un giocatore del più famoso divertimento da tavolo, ha impostato la sua campagna elettorale per la riconferma al settimo piano di viale Mazzini, seguendo lo schema del gioco in questione. Prima una casella, poi una casa, infine un albergo. Se vincerà la partita è presto per dirlo, nel frattempo tocca al ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, fermarsi sulla casella di viale Mazzini, per la presentazione del programma della Rai dedicato alla scuola, arriva dopo quello sull’economia e sulle cinque più alte cariche dello Stato. Eppure una volta non era così. Quando il 4 maggio del 2011 ( un altro giorno e anche la Lei avrebbe avuto la sua ode manzoniana) venne nominata direttore generale della Rai, nessuno la conosceva. Scarsi cenni biografici e poche immagini. Anche un fotografo esperto e navigato come Umberto Pizzi (quello dei Cafonal di Dagospia per intenderci) fece fatica a trovare una foto della signora per i quotidiani. Perché Lorenza Lei da Bologna, donna-azienda tutta d’un pezzo, della riservatezza, dell’anonimato come cifra, ne aveva fatto un must, al punto da lavorare a viale Mazzini come se fosse in un monastero. A distanza di un anno di quella “suora laica”, non c’è più traccia. Di foto ne trovi in ogni dove e in ogni posa, alle presentazioni dei libri che contano (e a Roma eccome se contano, se vuoi contare) è una presenza fissa, le cene conviviali non sono più un mostro da abbattere ma un animale ammaestrato, e al battesimo dei programmi dedicati alle istituzioni e ai temi cari al governo c’è solo e soltanto Lei. Qualcosa è cambiato oppure la signora di viale Mazzini è nel pieno della campagna elettorale per succedere a se stessa? Con l’avvicinarsi a passo di carica della scadenza naturale del cda, per la Lei non si tratta più di atti formali, ma di vera e propria propaganda. L’aver portato i presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, a viale Mazzini “solo” per battezzare un programma dedicato alle cinque più alte cariche dello Stato, è lì a dimostrare che la Lei si sta giocando tutto. Ma proprio tutto. “Voglio ringraziare le istituzioni presenti a nome di tutti i dipendenti della Rai, siamo una bella squadra. Il fondatore della Bbc definì l’emittente come una nazione che parla alla nazione e questo è anche il ruolo della Rai, che vede la centralità del servizio pubblico”. Come no, cara Lei, peccato che se lo ricordi solo in queste occasioni. Perché la nazione che guida, ovvero la Rai, parla un linguaggio talmente diverso dalla nazione che ascolta da creare una vera e propria Babele. E anche “Istituzioni”, il programma dedicato alle cinque più alte cariche dello Stato, rischia di apparire solo un spot rivolto ai diretti interessati. Che hanno ricambiato. “Oggi la Rai porta le istituzioni nelle case degli italiani aprendole alla conoscenza di tutti”, dice Schifani, parlando al fianco del direttore generale, durante la presentazione a viale Mazzini, “il bilancio della Rai chiuderà in pareggio, anzi addirittura leggermente positivo, e per questo ringrazio il direttore generale. Credo che questo possa aver contribuito a realizzare trasmissioni come questa, che non portano share e guadagni, ma sono realizzate con responsabilità e sforzo finanziario”. Al di là del fatto che non si comprende come un programma possa risanare un bilancio, e soprattutto come possa costare poco, il nodo vero del ragionamento di Schifani è un altro: “ giù le mani della Lei”. Il presidente del Senato, insomma, ha lasciato Palazzo Madama per andare a viale Mazzini a tirare la volata alla Lei. Un atto politico di particolare peso, considerato che allo stesso tavolo sedeva anche Fini, presidente della Camera, e grande sponsor del commissariamento della Rai. Davvero casuali le parole di Schifani? Sentite Fini: “una grande azienda pubblica come la Rai ha doveri particolari, non può limitarsi a stare sul mercato, ha un dovere di fornire una corretta informazione, del pluralismo e di dare un contributo al miglioramento della qualità democratica”. Ecco, appunto, quello che dovrebbe fare e non fa. Pari e patta, insomma.