L'analisi
Obama ha fatto il disastro, democratici allo sbando. E Trump gode...
Continua il travaglio interno ai Democratici su come preparare il messaggio, e i candidati giusti, per tornare a vincere alle urne. Gli appuntamenti prossimi sono per novembre 2018, con le elezioni di medio termine che rinnoveranno l’intera Camera e un terzo dei 100 senatori, e per novembre 2020, quando ci saranno le presidenziali, oltre al rinnovo del Congresso che avviene ogni due anni. Attraverso le sconfitte nelle 4 elezioni speciali per rimpiazzare 4 seggi vacanti alla Camera dopo l’8 novembre, i DEM hanno constatato che la demonizzazione del presidente non ha pagato come speravano. Ma, come ha notato conti alla mano Nancy Pelosi, leader “bollita” che un quarto del partito vorrebbe cacciare dalla influente posizione di capo della minoranza DEM alla Camera, in quelle stesse 4 elezioni i candidati democratici, pur perdendo, hanno migliorato sensibilmente le percentuali di voti che avevano ottenuto l’8 novembre negli stessi distretti. Il trend, insomma, e' positivo. Che fare, allora? Insistere sull’ostracismo a Trump? O cambiare agenda, come suggerisce un numero minoritario ma crescente di democratici della periferia frustrati dalla strategia dei vertici che puntano sulla Russia e sull’ostruzione di giustizia per arrivare all’impeachment di Trump? Ma quale sarebbe la mitica agenda alternativa? “Non credo che sappiamo quale sia la migliore direzione per il partito ora come ora”, ha ammesso lo stratega democratico Jim Manley. “Non sono convinto che come DEM abbiamo la risposta.” In effetti non esiste l’alternativa, perche’ Obama ha trascinato tanto a sinistra il partito, nei suoi 8 anni, da tagliare i ponti con la tradizione dei DEM centristi. Bill Clinton governo’ mediando con il GOP, firmo’ la legge di stop al welfare, e cavalco’ lo sviluppo economico degli ultimi anni del millennio scorso basandosi sullo slogan “l’era del grande governo e’ finita”. Il marito di Hillary era contrario alla immigrazione illegale e duro contro la criminalita’, voleva che gli aborti fossero “rari”, propugnava budget federali in pareggio, era impegnato a creare posti di lavoro. Sembrava piu’ Trump (Nafta a parte) che sua moglie oggi. Obama ha stravolto quella linea, e con cio’ ha fatto un danno al suo partito che sara’ assai complicato riparare, almeno per quanto si puo’ prevedere adesso. La realta’ non disputabile e’ che, mentre Barack e’ stato eletto due volte nel 2008 e nel 2012, oltre 1000 seggi tra Camera, Senato, Governatori e parlamentari delle legislature nei 50 Stati sono passati al GOP nelle elezioni del 2010, 2012, 2014 e 2016. Il partito democratico e’ oggi ridotto, nella felice immagine geometrica proposta da Victor Davis Hanson sulla National Review, ad un partito piramidale. La base sono i gruppi identitari (neri, ispanici, sindacalisti del settore pubblico, ambientalisti, femministe abortiste, gay e transgender), e al vertice comandano le elites progressiste e liberal sulle due coste (California e New York): a unirli tutti e’ il disprezzo per la popolazione che copre l’85% della geografia americana. Ma questa formula, che ha prodotto il primo presidente nero nel contesto eccezionale del 2008, e ha fatto il bis nel 2012, e’ riproponibile oggi? Allora c’erano un presidente in scadenza e in disgrazia, George Bush, la piu’ pesante Recessione dagli anni 30, e un candidato GOP debole in John McCain, poi replicato dal debolissimo Mitt Romney nel 2012. Alla Casa Bianca, Obama con la sua leadership ha pero’ fatto terra bruciata nel partito, e le diffuse batoste sul piano locale stanno impedendo la fioritura di nuove leve che sappiano farsi strada e diventino credibili e riconoscibili. Da una parte e’ difficile raccogliere consensi nella maggioranza silenziosa del paese con l’appoggio alle violenze di Black Lives Matter e degli Antifa nelle strade e nelle universita’, con l’adesione alla “resistenza” contro un presidente democraticamente eletto, o con la legge dei 15 dollari di paga oraria minima che, dove e’ in vigore (Seattle), sta falcidiando i posti di lavoro per chi ne ha piu’ bisogno. D’altra parte, c’e’ l’ostinato aggrapparsi al potere della generazione dei DEM decrepiti che frustrano il ricambio. Il top attuale del “partito che non molla” conta cinque personaggi che seriamente stanno considerando di correre nel 2020: Hillary Clinton ha 69 anni; Jerry Brown, governatore della California, 79; Joe Biden, 74, Bernie Sanders, 75; la senatrice (pelle)rossa Elizabeth Warren, 68. Il paradosso non e’ tanto l’eta’ vetusta (del resto, Donald ha compiuto 71 anni il 14 giugno), quanto la novita’ – negativa e fuorviante - del “messaggio”. Tutti costoro, nessuno escluso, sono allineati sulle posizioni della “nuova resistenza” nata dal voto popolare che ha mandato Trump alla Casa Bianca e ha creato una base intollerante sul modello della Pelosi. I leader del partito non possono staccarsi perche’ sono tutti ostaggi dell’estremismo minoritario nel paese ma dominante nelle elite, nei media e nei democratici militanti delle primarie. E’ la fazione che non sente ragioni e vuole Trump fatto fuori con le cattive, conscia o meno che sia impossibile batterlo sui contenuti. Fare grande ancora l’America, creare posti di lavoro con la deregolamentazione, ripristinare l’ordine e la legge al confine e nelle metropoli, tagliare le tasse, sviluppare l’energia e combattere duramente Isis e terrorismo. Quali alternative inventarsi contro questo buon senso che piace alle persone normali? di Glauco Maggi