la sfida repubblicana
Ultimo round fra Trump e CruzL'Indiana sarà la Fort Alamo del texano
Le primarie dell’Indiana, dove si tengono martedì 3 maggio le prossime primarie di entrambi i partiti, sono state definite dai commentatori la “Fort Alamo” per il senatore Repubblicano texano Ted Cruz. Se non batte Donald Trump in questo Stato settentrionale, simile per la sua composizione sociale religiosa e conservatrice al vicino Wisconsin dove Cruz ha avuto la sua ultima vittoria prima delle disfatte a New York e negli altri cinque stati liberal della costa orientale (Connecticut, Delaware, Rhode Island, Maryland e Pennsylvania), per lui è la fine. E secondo l’ultimissimo sondaggio Wall Street Journal-NBC pubblicato il 1 maggio andrà proprio come a Fort Alamo, dove i 189 texani, malgrado il loro eroismo, furono sbaragliati. Che i giustizieri della battaglia del 1836 fossero i messicani, mentre nel 2016 sarà Trump l’anti-messicano a eliminare Ted-David Crocket, è un’ironia della sorte. Ma pare proprio che il miliardario di New York la spunterà: è infatti davanti per 15 punti, al 49%, sul 34% per Cruz e il 13% per Kasich (con margine di errore di 3,9%). Se davvero il vantaggio sarà tanto consistente, diventerà sempre più ozioso soffermarsi sul computo matematico dei delegati che mancheranno al Donald per tagliare il traguardo dei 1.237 con le primarie che restano, per importanti che siano quelle finali del 7 giugno in California e New Jersey. E’ invece tempo di analizzare che cosa sta succedendo nella “pancia” del Paese, dando al trionfo di Trump la definizione che ormai merita: è una rivoluzione nazional-popolare che ha stravolto le categorie della politica come si era cristallizzata nel braccio di ferro destra-sinistra, conservatori-liberal, GOP-DEM. Non è un caso che i nuovi campioni di quel contesto di scontro frontale tra gli eredi di Bush e quelli di Obama, siano ancora adesso i personaggi che rappresentano le gerarchie prodotte dalla vecchia politica: da una parte Ted Cruz, e in subordine il moderato John Kasich, e dall’altra Hillary Clinton. E’ ormai minoritario, nel sentire attuale della maggioranza silenziosa nel Paese, il messaggio radicale di un Cruz che predica l’ideologia del ritorno al puro costituzionalismo e alla più rigida difesa dei valori cristiani contro le nozze gay e l’aborto. Che lui si dichiari anti-sistema, poi, vale solo per dargli l’adesione dei residui del Teapartismo del 2010, che fu un movimento fuori e dentro il GOP e valse la maggioranza repubblicana alla Camera (e poi al Senato nel 2014). Cruz è l’epitome di una politica di frazione, rigorosa anzi dottrinaria, intransigente e quindi perdente: è sempre quello dell’ostruzionismo in Congresso che fece sbattere al GOP il muso contro la Casa Bianca, e che non sarebbe in grado di vincere un solo voto tra gli indipendenti, per non parlare dei Democratici. E quanto ai proclami della “neosocialista” Hillary? La ex conferenziera alla Goldman Sachs - a 225 mila dollari di paga minima per un discorso di un’ora – è diventata rossa rotolandosi nel fango della battaglia delle primarie con il castrista dal Vermont. Tutta a colpi di “chi offre di più come stipendio orario minimo” e a chi “tassa di più “ per dare scuole gratis dall’asilo alla laurea. Ma la nazione è sbronza del welfare obamiano, sa che è già costato il raddoppio del debito pubblico e ora sfiora i 20 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Ha capito che la cura liberal dei superstimoli e dell’Obamacare è stata una chimera che ha messo in ginocchio l’America: stipendi a livello di fine recessione, e premi per le polizze sanitarie che crescono a due cifre all’anno. Per il 70% degli interpellati la nazione “va nella direzione sbagliata”, in politica economica soprattutto, e ha bel daffare il presidente anatra zoppa a dire, grazie all’intervista di oggi sul Magazine del New York Times, che “non mi hanno capito, perché’ non abbiamo saputo comunicare a dovere la mia ripresa”. La verità in cui abbiamo tutti più o meno creduto nell’ultimo anno, viziati dalle categorie di valori che sembravano validi nel generale conformismo, è stata una mezza verità. Che i vertici formali dei partiti, il cosiddetto establishment, sia stato messo a ferro e fuoco dalla protesta degli extra partito, dai Trump e dai Sanders, è però solo la prima metà del film. Nell’anno che ha via via portato alla defenestrazione dei Bush e all’erosione di favore per la Clinton, l’America ha riscoperto il patriottismo. Quello represso dagli anni della correttezza politica asfissiante. I giri del mondo di Barack a ‘chiedere scusa’ ai nemici degli USA per l’imperialismo, il capitalismo, il razzismo, il sessismo etc etc. Gli otto anni dell’islamismo radicale assassino, anche negli Stati Uniti, senza che mai Obama, e la Clinton con lui, trovassero la decenza di dire l’identità religiosa dei terroristi, roba che anche i cuor di leone europei, i Cameron e gli Hollande, hanno avuto il fegato di fare dopo Parigi e dopo Bruxelles. Non è che gli americani hanno fatto proclami, per mostrare che cosa sentano oggi. Sono andati a votare. La partecipazione alle primarie del GOP, in un confronto sul 2012 stilato da Public Opinion Strategies, è più che triplicata in Connecticut, è più che quadruplicata in Rhode Island ed è salita del 97% in Pennsylvania, tutti Stati vinti da Trump con ben oltre il 50%. In tutte le primarie del GOP ci sono state nel 2016 25,1 milioni di schede elettorali nelle urne contro 15,3 milioni nel 2012. I repubblicani votanti sono stati 3,5 milioni in più dei Democratici, che sono stati 21,6 milioni, contro i 26,1 milioni che erano nel 2008. E’ su quest’ondata di adesione civile pacifica che si basa il trumpismo, che si avvantaggia sempre più anche degli attacchi degli attivisti violenti che cercano di sabotare i suoi bagni di folla ai comizi, come hanno fatto in California (decine gli arresti). Per dirla con Peggy Noonan (sul Wall Street Journal del 30 aprile) “il semplice patriottismo batte l’ideologia” perché’ “dopo 16 anni gli americani sono diventati stufi di entrambe le astrazioni, conservatrici e liberal”. E ancora: “Quello che i suoi fans credono, quello che percepiscono quando lo guardano è che lui è dalla parte dell’America”. Più è bollato da “pazzo” ed “estremista” dalle élite di sinistra politicamente corrette, e malgiudicato per la sua “non ortodossia” anche da una fetta (che si restringe sempre più, primaria dopo primaria) di repubblicani DOC tradizionalisti, più è visto con simpatia trasversale da tanti americani, GOP, DEM e indipendenti, come dicono gli exit poll. Trump è pressato dal suo staff a vestire i panni del “presidente per bene”, e in una qualche misura si è già notato che sta andando ai corsi serali di buone maniere. Ma non sarà l’evoluzione della sua etichetta a sospingerlo alla Casa Bianca, se mai ci arriverà. Mitigherà gli insulti e ridurrà le trivialità nei due mesi e mezzo che mancano alla Convention, conservandole per la guerra senza feriti con Hillary a cui assisteremo in settembre e ottobre. A proposito della DEM, sempre che non venga politicamente eliminata dall’incriminazione dell’FBI per lo scandalo delle email a lei o a qualcuno del suo staff, quanto vale la carta della “prima donna a fare la presidente” in una America che ha ben altro da pensare che a fare collezione di “storie simboliche”, soprattutto dopo l’eredità meno che entusiasmante del “primo afro-americano”? di Glauco Maggi