Verso le presidenziali

Disastro primarie negli Stati Uniti, storia di un fallimento

Glauco Maggi

Ted Cruz in Colorado e Bernie Sanders in Wyoming hanno fatto due piccoli passi in avanti questo fine settimana. Non nell’aumentare le loro chance di tagliare i rispettivi traguardi per la nomination, ma nel precipitare sempre piu’ nel caos il sistema di selezione dei delegati, e in prospettiva la nomina dei due sfidanti di novembre. Ormai e’ evidente che esiste un problema grave nel processo elettorale, che Trump e Sanders hanno fatto scoppiare. Finora il barocco castello di delegati semplici e delegati super, di Stati ad elezioni chiuse  e di stati ad elezioni aperte (agli indipendenti e ai registrati del partito avversario) era rimasto in piedi grazie alla coesione di fondo nel corpo dei due partiti che aveva permesso ai McCain e agli Obama, ai Kerry e ai Romney, e prima ai Bush e a Bill Clinton, di approdare alle nomination trasformate in formalita’. Oggi, dopo che i Tea Party e la “maggioranza silenziosa” da una parte, e Obama con Occupy Wall Street e Black Lives Matter dall’altra hanno diviso nettamente il paese in due, anche i due partiti sono stati travolti dalle due rivoluzioni, quella trumpiana del nuovo nazionalismo e del nuovo orgoglio americano, e quella che Sanders chiama riduttivamente e pudicamente  ‘rivoluzione politica’ perche’ non ha il coraggio – siamo nel 2016 - di chiamarla socialista o marxista. Cosi’, celata dietro le anomalie contingenti dei voti stato per stato c’e’ una sempre piu’ ovvia inadeguatezza del sistema elettorale americano di registrare con obiettivita’ il cambiamento dei sentiment popolari che serpeggiano. L’apparato dei due partiti – ossia le elite sconfitte del GOP e il clintonismo abbarbicato alla clientela politica interna nei DEM - difende la propria posizione di rendita come puo’. Ma le regole vecchie non tengono piu’, e cercare di imporre in corsa nuovi criteri, magari scavando nei precedenti storici di 150-200 anni fa, e’ solo prova della fine della validita' dell'attuale meccanismo. Questo weekend e’ simbolico nel mostrarne i difetti. Cruz, grazie alle assemblee di partito alle quali e’ stato l’unico a partecipare, ha conquistato a Denver i 34 delegati del Colorado, attraverso un complesso meccanismo burocratico deciso dal GOP locale che da’ il massimo peso agli attivisti interni, premiando i piu’ organizzati, che sono appunto gli uomini di Cruz. Bernie, poverino, ha superato in voti Hillary ai caucus del Wyoming, ma siccome li’ il sistema di distribuzione dei seggi e’ proporzionale i due hanno avuto 7 delegati ognuno, con la Clinton che torna a casa pero’ piu’ ricca perche’ si e’ assicurata, in aggiunta, i tre funzionari locali DEM. Al passare di ogni primaria, o caucus, o degli altri bizzarri metodi di scelta decisi dai due partiti su base statale, indipendentemente l’uno dall’altro, alberga un senso crescente di arrabbiatura e sfiducia nei sostenitori dei candidati che si sentono “traditi”. E, in effetti, l’ingiustizia oggettiva che viene generata dalla variegata gamma di metodologie diverse che “creano” i delegati e’ palese e clamorosa. I delegati che Trump ha fatto eleggere, a centinaia ormai, dai milioni di votanti negli stati che tengono le classiche primarie con le centinaia di seggi che si aprono ovunque in certi Stati (come e’ stato in Florida, per esempio, e come sara’ il 19 a New York) conteranno a Cleveland come quelli del Colorado per Cruz o del caucus in Portorico per Rubio. E’ vero che Trump, non raggiungendo prima della Convention i fatidici 1237 delegati, a norma di statuto potra’ non passare alla prima votazione. Ma e’ anche vero che i “suoi” delegati, in generale, si sentiranno piu’ rappresentativi del mondo repubblicano che non i delegati dei caucus, per non parlare dei funzionari e dei quadri che andranno di diritto a Cleveland. Tra i DEM e’ l’opposto, ma il sistema non e’ meno squilibrato o minore fonte di frustrazione: basti pensare ai fans di Sanders, che hanno vinto gli ultimi otto stati di fila, ma non avanzano nella conta dei delegati perche’ il vantaggio vantato da Hillary poggia su quasi 500 superdelegati che nessuno ha scelto con il voto, ma che hanno promesso fedelta’ alla macchina politica dei Clinton. Da una parte c’e’ il GOP, i cui dirigenti, i funzionari, gli eletti in Congresso stanno subendo l’umiliazione di vedere in testa un capopopolo extrapartito, e al secondo posto un senatore isolato e isolazionista, anche se conservatore rigoroso e radicale. Insieme, i due frontrunners hanno l’80% dei delegati gia’ decisi, ma le elite del GOP teorizzano comunque da tempo un ribaltone alla Convention. Contro il primo (per Stati vinti e delegati) c’e’ una sorta di unanimita’ (e’ il cosiddetto partito Anti-Trump), ma non c’e’ poi unanimita’ sul secondo. I pro Cruz dicono di essere loro gli unici legittimi “sostituti” di Trump, ma siccome non piace neppure Cruz alla maggioranza del vertice del GOP, ecco le fazioni dei pro Kasich, o pro Romney, o pro Paul Ryan che si illudono di “ipnotizzare” l’assemblea dei delegati a meta’ luglio e tirare fuori dal cilindro il “nominato DOC”. Si illudono, perche’ non si accorgono che non c’e’ piu’ il GOP dei vincenti Reagan o Bush, ne’ dei perdenti Mc Cain o Romney, e che bisogna inventarne uno nuovo. Per i DEM e’ diverso: il loro partito e’ gia’ diventato “nuovo”, con Hillary-Faust  che ha venduto l’anima al Diavolo Rosso e ha iscritto i democratici nella internazionale socialista sperando di salvare la propria corsa. di Glauco Maggi