Presidenziali 2016
Hillary sarà la prossima candidata dopo Obama
Non è mai troppo presto per pensare di fare il presidente. Due settimane dopo la vittoria di Obama, sul fronte dei democratici è già emersa la candidatura di Hillary Clinton, anche se aveva sempre detto di non pensare a futuri incarichi pubblici; anche se sarà quasi settantenne nel 2016; anche se l’affaire Bengazi la sta torturando. In dicembre dovrà deporre nella commissione del congresso e dovrà spiegare che ruolo ha avuto il dipartimento di stato nella “non” difesa del suo ambasciatore in Libia, e se sa niente della manipolazione del primo rapporto della Cia, quello che accusava Al Qaeda. Depurato e poi recitato da un altro diplomatico, Susan Rice ambasciatrice all’ONU, per non disturbare la corsa di Obama con l’ammissione della rinascita del terrorismo, questo documento è oggi al centro dello scandalo. Poi, a gennaio, dopo l’inaugurazione bis di Barack, Hillary se ne andrà dal governo e studierà le fasi per l’obiettivo di carriera che ha davanti: diventare la prima donna bianca presidente degli Stati Uniti. Ma anche i repubblicani non stanno con le mani in mano. E il primo ad aver fatto una mossa concreta, altamente rivelatrice, è Marco Rubio, senatore della Florida di origini cubane, amico dei Tea Party. Come spiegare, diversamente dal voler iniziare a costruirsi un network di supporter sul piano nazionale, l’idea di fare un comizio in appoggio ad una raccolta di fondi del governatore repubblicano dello Iowa, Terry Branstad? Lo Iowa, si sa, è lo Stato che tradizionalmente apre la campagna elettorale con la fiera estiva dell’anno prima del voto, quindi Rubio ha fatto il suo primo passo mentre mancano “solo” trenta mesi all’appuntamento con i votanti di uno Stato che dista quasi mezza America dalla sua Miami. Rubio è un quarantenne che ha bruciato le tappe, diventando senatore dopo aver eliminato alle primarie un moderato ex governatore della Florida, che se l’è presa tanto da diventare filo-democratico. Marco, avvocato, è figlio della nidiata di politici partorita nel 2010 dal Tea Party, un movimento che è ormai parte consolidata, con luci ed ombre, nell’establishment del GOP. Per il Rubio e per gli altri parlamentari filo Tea Party che hanno vinto, c’è stato un numero non indifferente di personaggi non validi che hanno bruciato le speranze del GOP, sia nel 2010 sia nel 2012, di conquistare seggi alla portata repubblicana. Il brand del Tea Party, quindi, è vivo ma non più sulla breccia, e le elezioni di medio termine del 2014 saranno un bel test per la selezione dei candidati alle primarie del 2015-2016. Ma ciò che fa di Rubio, in ogni caso, un iscritto di diritto alla squadra repubblicana in lizza per la prossima Casa Bianca è un altro fattore: è giovane, ispanico (viene da una famiglia di fuoriusciti da Cuba), ha una faccia simpatica, e non ha un passato da finanziere né un presente da ricco con la puzza sotto il naso. Non è mormone ma è cattolico, e ha una famiglia perfetta, con moglie e figli. Anche lui, come la Hillary, ha già il suo obiettivo storico incorporato nella scheda anagrafica. Punta ad essere il primo ispanico presidente degli Stati Uniti, e dio sa quanto bisogno hanno i Repubblicani di riconquistare favori all’interno di un gruppo etnico che non più tardi di 8 anni fa aiutò con il 44% ad eleggere George Bush (governatore di uno stato al confine con il Messico e fluente in spagnolo). Due settimane fa, invece, Romney ha toccato l’abisso del 29%, lasciando a Obama il 71%. Rubio ha pure la carta della alleanza con i Tea Party, che dovrebbe garantirgli una via più agevole durante le primarie, che sono tipicamente preda dei militanti più radicali (o dei moderati che, come Romney, per vincere devono snaturare se stessi). Ma nel contempo, essendo parte dell’etnia dei latinos che cresce più velocemente dei bianchi e dei neri, Rubio ha già dimostrato, sempre che la questione della immigrazione non sia sanata durante il secondo quadriennio di Obama, di avere la credibilità per parlare di riforme. Se i colleghi del GOP, e lo stesso Romney, l’avessero ascoltato quando aveva proposto una legge bipartisan di sanatoria moderata degli irregolari ispanici un anno fa, Barack non avrebbe forse vinto in vari stati ballerini dove i voti del popolo “messicano” hanno fatto la differenza. Glauco Maggi