Delle leggi e delle pene

Come innovare le norme del mercato del lavoro

Cristiano Cominotto

Dopo un travagliato iter parlamentare, il 14 luglio 2018 è entrato in vigore il Decreto Dignità. Sebbene sembrerebbe essere solo un primo passo di una riforma più strutturata, si sperava in un approccio più innovativo nella riforma: sono infatti state toccate solo le norme dei contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato, che sono forme di disciplina del lavoro antiche e superate. Le quali sono state introdotte con la legge 230 del 1962, anni in cui il contesto storico e economico era totalmente diverso, ma mentre il contesto è evoluto, le norme sul lavoro sono rimaste praticamente invariate. Quando si parla dei concetti tradizionali dell’eterodirezione: avere luogo di lavoro e orari prestabiliti, l’esistenza di un potere gerarchico e disciplinare diretto, il dovere di concordare permessi e ferie, si capisce facilmente come la situazione economica e sociale odierna li metta fortemente in discussione. Ad avvalorare quanto detto sono i numeri di una recente ricerca effettuata dall’ dell’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano. Quest’ultima ci parla di un fenomeno in crescita. Nel 2017 risulta infatti che il 36% delle grandi aziende abbia avviato progetti strutturati di lavoro agile, trend in crescita del 6% rispetto al 2016. E anche tra le PMI lo smart working è in forte rialzo con il 22% delle stesse che ha progetti in corso. Complessivamente i numeri del Politecnico ci dicono che il lavoro agile riguarda l’8% circa 300.000 lavoratori in Italia, pari all’8% del totale. A regolamentare lo smart working è ora la legge n. 81 del 2017. Dove, anche negli articoli espressamente dedicati, non definisce precisamente il lavoro agile, ma si limita invece a rimandare a norme e accordi collettivi già esistenti e alla necessità di sottoscrivere accordi sindacali di secondo livello. In effetti la normativa di fatto non chiarisce né a quali tipi di rapporto di lavoro debba essere applicata e neppure stabilisce ipotesi di prestazioni alla quale potrebbe applicarsi. Inoltre la stessa sembra riguardare rapporti già in corso che in qualche modo l’azienda voglia declinare in nuove forme di smart working e non sembrerebbe neppure essere indirizzata a coloro che vogliono assumere nuovo personale. In definitiva possiamo affermare che oggi non esiste una disciplina precisa e specifica per i datori di lavoro che decidessero di assumere con nuove forme di lavoro agevolate. Eppure lo smart working, come ci dicono i dati, è il futuro dei rapporti di lavoro. Risulta evidente che sia necessario creare al più presto delle norme sulle nuove forme di lavoro. Le cosiddette nuove forme di contratto, dovrebbero infatti diventare le forme tipiche di prestazione lavorativa, rendendo i contratti a tempo determinato e indeterminato dei tipi di contratti secondari o quantomeno destinati a essere abbandonati col tempo. Una effettiva normativa compiuta sui nuovi tipi di contratti è necessaria per evitare una serie di criticità che potrebbero danneggiare specialmente i lavoratori. Gli esempi sono molteplici, si pensi al diritto alla disconnessione: il diritto del lavoratore a non essere disturbato al di fuori degli orari di lavoro. Ma anche al problema relativo agli straordinari: questi ultimi sono già difficili da quantificare all’interno di un rapporto di lavoro “classico”, figuriamoci con un lavoro agile. L’Italia ha la grande opportunità di attuare delle politiche coraggiose del lavoro, arrivando per prima a regolamentare in maniera estremamente innovativa il mercato del lavoro. Questo potrebbe fornire al Paese un vantaggio competitivo enorme, con minori costi per le aziende, e la conseguente opportunità di innalzare gli stipendi dei dipendenti. Superare la dicotomia tradizionale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, risulta essere fondamentale: si dovrà infatti definire una terza ipotesi da posizionare al centro delle due esistenti. Sarebbe controproducente lasciare la disciplina delle nuove forme di lavoro alle aule di Tribunale o aspettare che la situazione economica e lavorativa italiana delinei definitivamente e quindi regolamentare le nuove forme di lavoro: questo porterebbe evidenti ritardi e perdita di competitività. Dovremmo anche abbandonare definizioni dal sapore esotico quali lo smart working, che di fatto relegano queste nuove forme a ipotesi eccezionali e alternative rispetto alle forme tipiche di lavoro. Lo smart working e le nuove forme di lavoro dovrebbero in effetti diventare la regola e sostituire l’attuale contratto di lavoro subordinato. La politica oggi dovrebbe coraggiosamente introdurre definitivamente una nuova forma di contrattazione che non venga definita smart working e neppure lavoro agile, ma che possa essere definita come contratto di lavoro 2018 o 3.1. di Cristiano Cominotto