Il caso
Universitari in tenda: proteste per più diritti o per maggior comodità?
Dal 2 maggio, giorno in cui Ilaria Lamera, studentessa del Politecnico di Milano, si è accampata in tenda per protestare contro il caro affitti, il numero di universitari che ne ha seguito l’esempio è cresciuto non solo nel capoluogo lombardo, ma si è esteso a macchia di leopardo in tutta Italia. A seguito dell’accaduto, si sono susseguiti dibattiti e discussioni tra chi supporta i ragazzi e chi invece li critica ritenendoli viziati e indolenti.
Io ho ascoltato le motivazioni di diversi universitari; alcune mi hanno convinto, altre meno. Fatto sta che osservando la questione da più angolature, si possono cogliere aspetti diversi e trarne delle considerazioni; queste sono le mie. Il caro affitti è una realtà, non si può negare, soprattutto se si considera la città dalla quale parte la protesta. Milano è proibitiva per molti aspetti, è una tra le città più costose d’Europa e questo si riversa anche sul costo degli affitti. Chi vuole vivere o studiare a Milano è cosciente di questo e scegliendo il capoluogo lombardo, che offre sicuramente maggiori opportunità, si accolla anche il rovescio della medaglia, ossia il caro prezzi. Allo stesso modo, chi decide di trasferirsi a Milano per sfruttare le migliori occasioni lavorative, sa che dovrà fare i conti con un costo della vita che non troverebbe altrove.
Di questo non ci si può lamentare; le cose stanno così e questo vale per tutte le altre metropoli, perché è la logica delle grandi città che attirano persone, la cui presenza stimola la domanda, che per conseguenza fa alzare i prezzi. È la logica del mercato che non può essere modificata. Infatti, se ci si sposta in altre località i costi scendono di molto, arrivano ad essere anche meno della metà di quelli milanesi, motivo per cui non comprendo più di tanto le proteste di chi studia in zone che consentono di accedere ad appartamenti e stanze con prezzi più accessibili.
Altro discorso, a mio avviso, va fatto quando è evidente un’eccessiva speculazione e la pessima qualità di molti alloggi che andrebbero quantomeno manutenuti a fronte delle cifre esorbitanti che vengono richieste. Va da sé che, in questo senso, le proteste studentesche possono fare ben poco, giacché non è facile intervenire sulla proprietà privata e sulla libertà del singolo di offrire un prodotto ad un certo costo. Come già detto è il mercato a dettare le regole. Lo Stato, salvo non decida di calmierare i prezzi – a mio avviso non conveniente visto che si andrebbero a toccare i beni del singolo cittadino – potrebbe eventualmente intervenire con incentivi o contributi, ma si sa, i fondi statali non sono illimitati e la coperta è corta, quindi mi chiedo quanto reale aiuto agli studenti potrebbe dare un intervento di questo tipo.
Ciò che può fare, invece, è mettere a disposizione degli universitari alloggi pubblici a prezzi accessibili, ma è evidente che non è possibile riuscire a garantire un posto letto a tutti gli studenti fuori sede; infatti, da quanto ho potuto apprendere, i posti letto attualmente sono circa 40.000, grazie ai fondi del PNRR si riuscirebbero a creare ulteriori 60.000 posti, ma il numero degli studenti fuori sede si aggira attorno ai 700.000.
A meno che non si replichi il modello del campus americano; bellissimo, funzionale, ottimale per gli studenti, ma allora bisogna mettere in conto di aggiungere qualche zero alla cifra che noi italiani siamo abituati a spendere per andare all’università.
In sostanza, nulla da dire sul fatto che degli studenti vogliano puntare l’occhio di bue su di una situazione che ha delle criticità, soprattutto in alcune aree, ma è cosa ben diversa se il concetto che si fa passare è che gli studenti, in virtù del diritto allo studio, debbano essere comodi e vicino agli atenei perché il pendolarismo è faticoso o che abbiano il diritto di accedere agli alloggi pubblici senza criteri di merito, che vengono ritenuti ingiusti. Soprattutto questo ultimo aspetto mi lascia basita: il criterio del merito è ingiusto!
Praticamente c’è chi ritiene che impegnarsi, studiare più degli altri e ottenere migliori risultati in virtù della dedizione impiegata, non dia diritto ad avere più di chi non mette lo stesso impegno. Per me è inascoltabile e inconcepibile! Il fatto che ci siano ragazzi con meno possibilità, che lavorano oltre a studiare e che quindi sono meno agevolati di chi può dedicarsi unicamente allo studio, non è motivo per considerare il principio del merito ingiusto. Da sempre ci sono persone più o meno abbienti, è la logica della società, ma di certo non ha impedito a tanti di riuscire con ottimi risultati pur dovendosi dividere tra lavoro e studio.
Il sacrificio, che spesso alle nuove generazioni pare essere qualcosa di vessatorio e che va contrastato richiedendo più diritti, è sempre stato un modo per crescere, maturare, temprarsi per affrontare la vita; a maggior ragione nel passaggio da studente a lavoratore. Il mondo del lavoro richiede sacrificio e se già si conosce il sapore della fatica e della rinuncia, tanto più facile sarà affrontare le difficoltà che la vita adulta riserva. I primi pendolari sono proprio i lavoratori, che spesso devono farsi un’ora o più di viaggio per raggiungere il luogo dove svolgono la propria attività; adulti che hanno una famiglia e una casa cui dedicarsi una volta rientrati la sera. Ma ci sono da sempre anche tantissimi studenti pendolari e non solo universitari. Penso al Trentino dove vivo, che sicuramente ha una situazione analoga a tutte le altre regioni; chi abita nelle valli e si sposta per studiare a Trento, fa viaggi tra andata e ritorno che richiedono ore. Quando frequentavo le scuole superiori e vivevo in una borgata fuori città, impiegavo più di un’ora ad arrivare a scuola.
Mio fratello – autistico ad alto funzionamento, quindi con le difficoltà di un ragazzo con questa peculiarità – per andare all’università si fa trenta minuti a piedi per raggiungere la stazione, un’ora di treno per arrivare a Bolzano dove studia e l’ulteriore tragitto a piedi verso l’università. Non mi risulta di averlo mai sentito lamentarsi. È una cosa che si fa, che si è sempre fatta e che sempre si farà perché il mondo gira così, che piaccia o no; quando io ero ragazzina si studiava anche in treno, si ripassava la lezione insieme ai compagni di viaggio; non capisco perché ora questo non si possa più fare.
In questi giorni ho visto servizi televisivi in cui si raccontava il rocambolesco viaggio per arrivare in ateneo con treni, metropolitane e autobus pieni, dove non è possibile sedersi e sfruttare il tempo per aprire i libri. A questi ragazzi iper digitalizzati, è mai venuto in mente che non esiste soltanto la lettura del libro per apprendere? Quando frequentavo l’università, contemporaneamente lavoravo perché vivevo fuori casa e di tempo a disposizione non ne avevo granché, ma non volendo rinunciare alla mia passione per lo sport, registravo la lettura dei libri di studio e li ascoltavo quando andavo a correre...basta ingegnarsi un po’ e le soluzioni si trovano. Io ho la sensazione che di generazione in generazione aumenti la richiesta di diritti e diminuisca la predisposizione al sacrificio, un’abbinata che guardando al futuro non credo porti a grandi risultati.
Non sto dicendo che non ci debba essere un’evoluzione o che la vita dei nostri nonni, con le grandi difficoltà che decenni fa si dovevano affrontare, debba essere il modello di vita dei giovani, ma di certo il rigore, la disciplina, la predisposizione al sacrificio, alla rinuncia e alla privazione hanno temprato uomini e donne che hanno tutto da insegnare alle nuove generazioni, compresa la mia.
Alla fine, comunque, questi ragazzi stanno solo posticipando l’incontro con un mondo e una vita difficili che prima o poi si troveranno a dover affrontare, in cui il pendolarismo è l’ultimo dei problemi; e chi, invece di accamparsi in tenda, ha continuato con la propria quotidianità fatta di studio, e spesso anche di lavoro, per cui il tempo di manifestare non c’è, sarà agevolato e capace di fronteggiare le difficoltà e le sfide della vita molto più facilmente.