La storica femminista
Barbara Alberti, la nostra Virginia Woolf contro censura e idiozia
]«Rinunciare alla libertà d’espressione è la peggiore delle epidemie». Uno chignon grigio d’un’eleganza sussurrata, il fisico gracile, le farfalle al posto delle dita, da un lato; e le saette nello sguardo e il pensiero tonante alla Virginia Woolf, dall’altro. È impressionante osservare il dentro e il fuori di Barbara Alberti intervistata dall’indomita Francesca Fagnani al feroce Belve programma di Raidue, mentre discute di sesso, di «amori inesplicabili» , di incantamenti del cuore e della mente, o di «diritti di qualcuno che non si possono difendere senza ledere i diritti di qualcun altro».
Barbara Alberti ci delizia. È la voce ribelle della nostra coscienza oggi assediata dal politicamente corretto. Da templare dei diritti civili, la signora rappresenta l’ultimo baluardo contro il femminismo oltranzista e l’ipocritissima cancel culture. Ossia quella cultura della cancellazione tanto di moda che spinge, per esempio, ad abbattere la statua di Colombo; a vietare i libri di Mark Twain dove appare la parola “negro”; a far ridoppiare un film –Una donna promettente- perché la voce italiana era maschile e quella originale americana apparteneva a una trans. Sia a Belve dove ridimensiona i suoi passati amori saffici («le donne mi annoiano, perché sono gelose»), sia alla rivista www.mowmag.com, Barbara ci fa fare la ola. «Il mondo è vittima di un rincoglionimento totale, di stampo reazionario. Noi vecchi non pensavamo certo di lasciare un mondo ideale, ma morire travolti dalla stupidità è veramente spiacevole» afferma lei, stabilendo che un attore maschio bravo può tranquillamente interpretare una donna, perché la «recitazione dissolve l’identità» che, per inciso, è la stessa cosa che diceva Euripide. Barbara è una mitragliatrice gentile.
Sulla stramberia supergender di Michela Murgia che usa lo “schwa” il segno illeggibile ad indicare il plurale neutro caro alle comunità transgender commenta: «Come può una persona con un tale istinto poetico incartarsi in questo barocchismo moderno? Se censuri Céline, e lo traduci in un linguaggio politicamente corretto, non solo diventa illeggibile, ma sciocco. È bello e vitale che ci siano gli uomini, le donne, i trans. Ma senza manuali di bon ton ipocrita». Sulla messa al bando delle parole, aggiunge: «Io voglio essere libera di dire tutte le parole che voglio, persino di bestemmiare. Ora dobbiamo rifare tutta la letteratura mondiale? Se non diciamo più “zoppo” la persona non è più zoppa, e sarà trattata con maggior rispetto? Riguardo alle minoranze etniche e sessuali, occorre educare i figli, all’intelligenza della diversità. Se i genitori ce l’hanno. Per la nostra cattiva coscienza razzista abbiamo trasformato in ingiuria la parola “negro”, che è diventato insulto, mentre “bianco” non lo è». Già.
Barbara ha ragione. E, riguardo alle masse “suscettibili sui social”, afferma che «è spiacevole: tutto si fa per un like»; ed ecco che io, punto nell’orgoglio, corro da mio figlio a strappargli il tablet e oscurargli Youtube. Barbara si produce in puntuti commenti che in qualunque altro momento storico sarebbero finanche banali. Se le impongono l’idea forzosa della “quota rosa” , s’inalbera: «Annunci trionfali, “ci vuole una donna presidente della Repubblica!”, sono imbarazzanti. Una donna non vale l’altra e il fatto di essere donna non è una condizione sufficiente». Se le dicono che urge «depurare il linguaggio», lei immagina un mondo mellifuemente totalitario , «che degrada la moralità a slogan e censura le parole, sostituendole con altre che sono a volte più offensive. Credono di creare un’uguaglianza teorica, verbale. Poi le domandano dell’autocensura di Victoria’s Secret verso le sue modelle. E lei osa l’inosabile: «Cosa verrà fuori ancora nell’arte? Che magari un bravo violoncellista non potrà suonare in un’orchestra perché non è gay o non è nano?». Domanda feroce. Se la facessimo noi, saremmo tacciati di hitlerismo, banditi da ogni consesso; ma intonata da Barbara Alberti, diventa un dito puntato verso l’ipocrisia. Chapeau...