Complimenti per la trasmissione
Social Dilemma, se il web diventa la nostra discesa agli inferi
Solo due industrie chiamano il loro cliente ‘utilizzatore’: quella delle droghe illegali e quella dei software«. È questa una delle frasi che attraversano The Social Dilemma, assieme a molte altre che richiamano la tragedia greca e i drammi shakespeariani.
The social dilemma è il documentario Netflix di Jeff Orlowski che, non senza un deciso frisson d’inquietudine, indaga il lato demoniaco dei social network. Il film s’accende sulle testimonianze potenti di ex dirigenti di Facebook (c’è quello che ha inventato il “like”) e boss del marketing di Instagram, di ex “capi delle monetizzazione” di Twitter, di inventori di algoritmi di Pinterest e di Google usciti dalla dipendenza e dalla manipolazione dei mostri che avevano contribuito a creare. Il mio “pentito” preferito è tale Tristan Harris, un cervellone nerd dalla barbetta rossiccia che, da ex esperto di “etica digitale di Google” -cioè da analista delle coscienze delle Silicon Valley- spiega chiaramente come «cinquanta designers bianchi, dai 20 ai 25 anni in California, hanno preso decisioni che incidono sulla vita di 2 miliardi di persone». E lo dice davanti ad una telecamera e un tavolino vuoto, metafora di tutte le menti piallate dai social negli ultimi vent’anni. E quindi si parla di discriminazione, di disinformazione, di gente che «ti si insinua nel tronco encefalico come una slot machine, ti dà dipendenza, e fa business cambiandoti le abitudini». Alle interviste autentiche si alternano immagini di fiction. Per esempio quella di una graziosa famigliola americana che non riesce a disconnettersi, con il figlio schiavo schiavo a scuola dei post su WhatsApp e del controllo di Facebook sulla sua vita; mentre la figlia adolescente immerge la propria giornata sulle foto a culo di gallina di Instagram, e distrugge la scatola dentro cui i genitori avevano tentato di blindarle il telefonino. Poi appare un prof di Stanford che informa dell’aumento del 70% tra gli adolescenti dipendenti dai social. Poi eccoti un’altra docente che ti spiega che «quando ti taggano, ti infilano uno spot in un post», fanno un lavoro di Growth Hacking, di hackeraggio delle menti a cui si strappano big data e dignità.
Infine scorrono le immagini delle gravi violenze perpetrate in Myanmar a causa delle campagne d’odio e di notizie false circolate su Facebook, di Trump, di Bolsonaro, di un gruppo di terroristi psichici che ci avvertono che viviamo in una trappola mortale. The social dilemma è interessantissimo. Se si riesce ad arrivare alla fine senza ingoiare un Prozac...