Benedetto XVI era in sede impedita
Anche il latinista Mosetti Casaretto (Univ. Torino) concorda con Codice Ratzinger
E alla fine è arrivato anche l’endorsement universitario definitivo alla nostra inchiesta “Codice Ratzinger”, condotta su questa pagina negli ultimi tre anni.
Francesco Mosetti Casaretto, professore associato all’Università di Torino, “mediolatinista” (cioè specializzato in latino medievale), conferma il lavoro di traduzione della Declaratio di papa Benedetto XVI effettuato per primo dal prof. Gian Matteo Corrias, latinista e saggista storico religioso, poi avvalorato dal collega latinista prof. Rodolfo Funari, massimo traduttore da Sallustio e già compilatore di voci del Thesaurus.
Il prof. Mosetti Casaretto, che è intervenuto a una delle 65 conferenze (organizzate dai lettori) sul volume “Codice Ratzinger” concorda implicitamente anche sull’aspetto generale della sede impedita di papa Benedetto e sulla conseguente nullità del conclave 2013 che elesse Bergoglio. Nullità sancita dal combinato disposto degli articoli 76 e 77 della costituzione Universi Dominici Gregis, come recentemente confermato dall’avv. Roberto Antonacci QUI
Con quella sua breve dichiarazione in latino, papa Ratzinger, l’11 Febbraio 2013 non abdicò minimamente, come ci è stato ammannito dal mainstream, ma non fece altro che “profetizzare” la sua prossima sede impedita, causata da un conclave illegittimo, convocato a Papa non morto e non abdicatario. Solo in questo modo si spiega in modo coerente la sua altrimenti assurda rinuncia al solo ministerium (il potere di fare il Papa) con il trattenimento del munus, l’investitura di Pontefice, di origine divina, (l’essere Papa). Ricorda il card. Gerhard Müller nel suo ultimo libro “In buona fede”, infatti, che munus e ministerium “sono inscindibili”.
Solo in stato di confino, esilio, prigionia, (can. 412) il ministerium può essere separato dal munus per causa di forza maggiore: il Papa perde il potere di fare il Papa, ma rimane Papa.
Circa l’assoluta impossibilità di sinonimia tra ministerium e munus si è recentemente espresso anche il filologo e teologo prof. Erik Walters dell’Università americana “John Cabot”, a Roma QUI . Il ministerium non può mai voler dire “essere Papa”, ma solo “fare il Papa”.
Quello di papa Ratzinger non fu solo un geniale sistema antiusurpazione, dunque, ma anche un’operazione di conversione e purificazione della Chiesa. Per risolvere la situazione, basta ora che qualche cardinale di nomina pre-2013 dica semplicemente che “vere papa mortuus est”, il papa (Benedetto) è morto e occorre convocare il conclave QUI .
“I colleghi che mi hanno preceduto - spiega il prof. Mosetti Casaretto - hanno restituito a verità la Declaratio e rivelato il suo senso più profondo. Dopo un confronto con i professori Corrias e Funari, conveniamo su una traduzione accettata in modo unanime. L’uso del latino che fa papa Ratzinger è assolutamente preciso e sapiente. Possiamo anche ricordare come egli avesse un forte legame teologico e culturale con il Medioevo (si è occupato molto di s. Bonaventura, per esempio), che è l’epoca che (ri)costruisce la civiltà occidentale crollata con l'Impero romano, realizzando la perfetta fusione fra civiltà greco-latina e Cristianesimo. Dato il constatabile “Tramonto dell’Occidente”, non mi sembra un dato trascurabile. Ha scelto il nome di Benedetto non a caso (è il santo monastico per eccellenza), prediletto da un Papa nella tempesta, Gregorio Magno, il quale usa la metafora della nave della Chiesa sballottata dai flutti della storia, per significare l’asperità del proprio pontificato. Non solo. Gregorio Magno è il Papa che, eletto, rimpiange l’isolamento della sua cella (era un monaco) e si rammarica del doversi occupare del governo della Chiesa anziché della dolcezza di una vita contemplativa dedicata alla preghiera”.
Ciò che emerge in modo fondamentale e risolutivo dalla traduzione della Declaratio condivisa dai tre latinisti, che riportiamo con tutte le note e il testo a fronte, è innanzitutto la differenza semantica, non solo canonica, fra munus e ministerium. Poi il verbo “vacet”, traducibile nel suo primo significato come “la sede di Roma, la sede di San Pietro resti VUOTA”, in riferimento al fatto che papa Benedetto non lasciò la Sede apostolica giuridicamente vacante, ma, attraverso la sede impedita, per causa di forza maggiore, lasciò vuota la cattedra di San Pietro, in San Giovanni in Laterano, da cui il papa trae il suo potere pratico di vescovo di Roma.
Importantissima anche la corretta lettura sul cenno alla convocazione del conclave.
Il latino consente di slegare il concetto dell’elezione del successore dal momento temporale della sua rinuncia, interrompendo la relazione logica. La traduzione che è stata pubblicata della frase: “…e dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice” è sbagliata, innanzitutto perché solo ad uno solo compete convocare il conclave, cioè al cardinale decano. Si aggiunga che “his” vuol dire “questi, costoro” e non “coloro”. Inoltre, il complemento d’agente ab his quibus competit (ab + ablativo) secondo l’uso latino non dovrebbe essere retto da convocandum esse (una perifrastica passiva che richiede il dativo d’agente), ma da ad eligedum.
Quindi la traduzione corretta è: “E DICHIARO che dovrà essere convocato il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice DA PARTE DI COSTORO AI QUALI COMPETE”.
Con questa frase papa Benedetto specificava esattamente che, in seguito alla sua sede impedita e dopo la sua morte, il prossimo (vero) Sommo Pontefice dovrà essere eletto da quegli stessi AUTENTICI cardinali allora lì presenti, di nomina ratzingeriana e wojtyliana. Prescrive infatti la Universi Dominici Gregis all’art. 33 che “…È assolutamente escluso il diritto di elezione attiva da parte di qualsiasi altra dignità ecclesiastica o l'intervento di potestà laica di qualsivoglia grado o ordine”. I cardinali di nomina antipapale non sono veri cardinali: se il prossimo conclave ne annoverasse anche solo uno nominato da Bergoglio verrebbe eletto un altro antipapa.
Ci sono poi altri significati possibili più sottili, meno univoci, che sono stati individuati in nota e che meritano sicuramente attenzione. Quand’anche fossero letti come nella versione “politicamente corretta” non sconvolgono l’impianto della Declaratio come “profezia di sede impedita”.
Di seguito riportiamo la traduzione sottoscritta dai latinisti Corrias, Funari e Mosetti Casaretto.
Originale latino della Declaratio di papa Benedetto XVI:
Fratres carissimi,
Non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi, sed etiam ut vobis decisionem[1] magni momenti pro Ecclesiae vita[2] communicem. Conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata, ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate[3] non iam aptas esse ad munus[4] Petrinum aeque administrandum.
Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi[5] debere, sed non minus patiendo et orando. Attamen in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato ad navem Sancti Petri gubernandam et ad annuntiandum Evangelium etiam vigor quidam corporis et animae necessarius est, qui ultimis mensibus in me modo tali minuitur, ut incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam. Quapropter bene conscius ponderis huius actus plena libertate declaro me ministerio Episcopi Romae, Successoris Sancti Petri, mihi per manus Cardinalium die 19 aprilis MMV commisso[6] renuntiare[7] ita ut a die 28 februarii MMXIII, hora 20[8], sedes Romae, sedes Sancti Petri vacet[9] et Conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit[10] convocandum esse.
Fratres carissimi, ex toto corde gratias ago vobis pro omni amore et labore, quo mecum pondus ministerii mei portastis et veniam peto pro omnibus defectibus meis. Nunc autem Sanctam Dei Ecclesiam curae Summi eius Pastoris, Domini nostri Iesu Christi confidimus sanctamque eius Matrem Mariam imploramus, ut patribus Cardinalibus in eligendo novo Summo Pontifice materna sua bonitate assistat. Quod ad me attinet etiam in futuro vita orationi dedicata[11] Sanctae Ecclesiae Dei toto ex corde servire velim.
NOTE
[1] La traduzione di decisio nel senso di “decisione”, che qui si accoglie per ragioni prudenziali, è solo apparentemente certa e indiscutibile. L’esame lessicologico offerto dal Thesaurus linguae Latinae (I, col. 69, rr.40ss) consente infatti di accertare che il significato di decisio riconducibile all’italiano “decisione” è da individuare in un numero molto limitato e alquanto tardivo di usi (diiudicatio, constitutio) a margine della medesima accezione traslata pactio. Per questo, non si può in alcun modo asserire una precisa corrispondenza del vocabolo latino, per di più di uso assai raro, con quello italiano, di uso invece comunissimo. Le accezioni primarie del sostantivo sono individuabili invece, giusta la sua etimologia (< de-caedere: “tagliare via”, “scindere”), nei sinonimi decollatio e partitio, quindi nel traslato pactio (“accordo”). Pur nell’evidenza del fatto che Benedetto XVI stia qui impiegando il sostantivo decisio per riferirsi primariamente alla propria risoluzione di “ministerio episcopi Romae […] renuntiare”, non si può tuttavia ignorare la pregnanza semantica del termine (certamente non la scelta più ineccepibile per rendere in latino l’italiano “decisione”), pregnanza che, legata all’etimologia latina del nome deverbale, appare del tutto intrinseca, nella sua dirompente carica potenziale, alla riposta intenzione dell’Autore dello scritto (per cui cfr., di seguito, la nota n. 8 a vacet).
[2] La versione italiana dell’espressione pro Ecclesiae vita offerta dalla Santa Sede si attesta sull’anodino “per la vita della Chiesa”, che allude al nudo avvicendarsi quotidiano degli eventi. La solennità dell’intonazione e la locuzione magni momenti, che connota la decisio che l’Autore si accinge a comunicare, sembrano tuttavia sospingere verso un’interpretazione diversa del sintagma, meglio capace di rappresentare la gravità dell’ora presente (per cui cfr. infra: in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato). Il sostantivo vita varrà allora, forse, ad indicare piuttosto la stessa esistenza, la sussistenza dell’istituzione ecclesiastica a vantaggio della quale (pro Ecclesiae vita) il pontefice ha preso la decisione che in questo testo dichiara. Si rammenterà che nel testo della “Declaratio prima” pronunciata da Benedetto XVI durante il concistoro ordinario dell’11 febbraio 2013 insisteva proprio in questo luogo del testo uno dei due solecismi già segnalati da qualche osservatore nell’immediato dell’evento (pro Ecclesiae vitae): difficilmente si sfuggirà all’impressione che una tale imprecisione, in un testo ufficiale e dalla portata storica quale questo, non sia stata frutto di distrazione, ma esito di una ponderata scelta, finalizzata ad attrarre l’attenzione dei lettori più avvertiti sulle peculiarità del testo, segnatamente in alcuni specifici passaggi.
[3] Sebbene per la locuzione ingravescente aetate sia possibile riscontrare una certa tradizione d’uso canonistico (cfr., ad esempio, la costituzione apostolica Ingravescente aetate di Paolo VI), non parrebbe del tutto inverosimile postulare anche in questo caso l’intenzione dell’Autore di lavorare sulle implicazioni del dettato testuale, nel senso di una pregnanza che non sarebbe affatto fuori contesto, in un documento di questa portata storica. Sulla base di un passaggio del Breviarium ab Urbe condita di Eutropio (Brev. IX 27), ove si legge che l’imperatore Diocleziano, assieme a Erculio suo collaboratore, “ingravescente aetate et senectute appropinquante”, giunsero alla decisione di deporre le insegne del potere e di ritirarsi a vita privata, il sintagma potrebbe essere inteso non semplicemente come “a causa del peso dell'età” (peso che cresce meccanicamente, per il solo trascorrere del tempo), ma piuttosto come “a causa dell’aggravarsi dell’età” (età appesantita dal complicarsi della situazione esterna, alla quale si fa esplicita allusione nel seguito del testo). Si noterà che l’aggravarsi del peso dell’età è indicato dall’Autore come causa immediata dell’incapacità di administrare il munus, di “gestirne”, cioè, gli aspetti pratici “amministrativi”, come è implicito nel significato del verbo administrare e come l’Autore chiarirà di seguito, affermando che “incapacitatem meam ad ministerium mihi commissum bene administrandum agnoscere debeam” (ove si noterà la scelta specifica del termine ministerium, dalla semantica e dall’uso del tutto univoci).
[4] Il sostantivo munus è qui impiegato nella sua accezione generale di officium, ossia di investitura divina da cui discende il diritto di amministrare la chiesa (il ministerium), che, giusta l’esplicitazione di Benedetto XVI nel seguito del documento, si realizza nel governo della nave di Pietro e nell’annuncio del Vangelo. Circa l’impossibilità di qualsiasi equiparazione sinonimica tra ministerium e munus, si veda QUI https://www.liberoquotidiano.it/articolo_blog/blog/andrea-cionci/35652847/la-sinonimia-salva-bergoglio-spazzata-via-tedesco-benedetto-xvi.html
[5] Il verbo exsequor, deponente, presenta una specifica tradizione d’uso nel contesto giuridico, ove non solo ne risulta ammesso l’impiego con significato passivo (cfr. Ulp. Dig. 2. 1. 19), ma ne è altresì attestata l’accezione specifica di “applicare”, “eseguire”, “rendere esecutivo”, di tradurre cioè dal dominio della dignità e della normatività a quello della prassi giuridica (cfr. exsequi imperium [Cic., Phil. IX 4, 9]; mandata [Id., Senect. 10, 34]; omnia regis officia et munera [Id., ibid. 20, 72]; munus officii exsequi et tueri [Id., Tusc. III 7, 15]; munus exsequi et fungi [Id., Off. I 23, 79]; in exsequendis negotiis [Id., Senect. 9, 28]; quam comptam et mitem orationem si ipse exsequi nequeas, possis tamen Scipioni praecipere [Liv. 29, 25]; exsequi consilia [Tac. Ann. XV 53]; destinata [Id., ibid. XIII 4]). In questo modo Benedetto XVI mostra di essere ben consapevole non solo della natura del munus petrino (la cui essentia spiritualis era stata peraltro dichiarata immediatamente prima), ma del fatto che il munus debba essere reso esecutivo e applicato attraverso il suo esercizio pratico, il ministerium. Questa sezione introduttiva sulla natura del munus e sul rapporto tra munus e ministerium prepara lo snodo centrale del documento, quello che contiene la rinuncia, che – si vedrà – è senza possibilità di equivoci rinuncia al solo ministerium. La consapevolezza che il valore specifico settoriale di exsequor implica da parte di Benedetto XVI della reale natura spirituale del munus petrino trova una singolare conferma “postuma” nel testo del rogito inserito nella bara del pontefice. Quando infatti in questo solennissimo documento ufficiale viene citato il testo della Declaratio, invece del sintagma exsequi debere si legge la variante exerceri debere. Il fatto è certamente degno della massima attenzione, e parrebbe difficilmente interpretabile come una svista. Il verbo exerceo presenta anch’esso un’accezione settoriale nell’uso giuridico, indicando segnatamente l’applicazione, l’esecuzione di una norma giuridica (cfr. regnum exercere, “regnare” [Verg., Georg., II 370]; imperia [Id., Aen. VI 543]; poenas, “usare i castighi” [Justin., 20, 4]; legem, “applicare la legge [Liv., IV 51]). Ebbene, proprio il fatto che exerceri in sostituzione di exequi appaia come una variante del tutto adiafora, e persino meno precisa, di exsequi vale ad attirare l’attenzione sulla locuzione, la cui pregnanza e le cui implicazioni a questo punto difficilmente potranno essere trascurate: Benedetto XVI intendeva evidenziare con raffinatissima formulazione teologico-canonistica le caratteristiche specifiche del munus e del ministerium ad esso collegato, per rendere del tutto chiaro ciò a cui aveva rinunciato nella Declaratio.
[6] La precisazione del ruolo del collegio cardinalizio dell’attribuzione del ministerium (attribuito “per mano dei cardinali”) certifica in maniera inequivocabile che l’oggetto della rinuncia che qui il pontefice sta dichiarando è l’esercizio pratico del potere papale che discende dal munus, il quale è invece attribuito, secondo la teologia cattolica e a norma del diritto canonico, da Dio e da Dio solo. Il participio perfetto commisso, sintatticamente collegato a ministerio, presentava nel testo della “Declaratio prima” il secondo dei due solecismi che viziavano quel testo, poi emendato nella sua pubblicazione ufficiale sul sito internet della Santa Sede (ministerio … commissum): se è valida l’osservazione che abbiamo già presentato alla nota 2, si tratta anche in questo caso di un arguto espediente attraverso il quale l’Autore ha inteso richiamare l’attenzione dei lettori più avvertiti sull’oggetto reale della rinuncia, ovvero – come si è detto – il ministerium, l’esercizio pratico della funzione papale.
[7] La rinuncia al ministerium e non al munus petrino configura una particolarissima, e inedita, situazione giuridica, lucidamente esaminata, nell’immediato, dal canonista don Stefano Violi (cfr. https://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350913.html ). Sul piano canonistico la perdita del ministerium senza che perciò il munus petrino sia deposto è inquadrabile solo ed esclusivamente attraverso la specialissima fattispecie della sede impedita, normata dai canoni 335 e 412.
[9] Nella tradizione storica e giuridica è ben attestato l’uso di vacare per indicare la sede vacante. La natura parziale della rinuncia, che risulta – come si è detto – inequivocabilmente dal dettato del testo impone tuttavia di escludere che ci si riferisca qui, appunto, alla sede vacante, che si configura in seguito alla morte o alla valida abdicazione del pontefice (Cfr. Universi Dominici Gregis). L’aporia è risolvibile attraverso un’interpretazione del verbo vacare nel suo senso letterale di “essere vuoto”, “sgombro”, “libero”. In questo modo risulta perfettamente rappresentata la situazione che si sarebbe configurata dopo la rinuncia al solo ministerium da parte di Benedetto XVI: continuando a detenere il munus petrino, egli avrebbe impedito a chiunque di occupare validamente la sede episcopale romana, la cattedra di San Giovanni in Laterano, che quindi, sebbene fisicamente occupabile (e occupata), sarebbe dal momento della rinuncia rimasta effettivamente vuota sul piano del diritto.
[10] La Santa Sede offre questa traduzione del delicato snodo testuale “conclave ad eligendum novum Summum Pontificem ab his quibus competit convocandum esse”: “dovrà essere convocato, da coloro a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice”. Tale resa in italiano (alla quale si allineano le traduzioni nelle altre lingue volgari), apparentemente non problematica sul piano linguistico e concettuale, è invece inaccettabile per due motivi, uno di ordine canonistico, l’altro sintattico. A norma della costituzione Universi Dominici Gregis (art. 19), la convocazione del conclave spetta infatti non all’intero Collegio cardinalizio, come sembrerebbe implicito nella traduzione offerta dalla Santa Sede, ma al solo Presidente del Sacro Collegio. L’Autore avrebbe dunque commesso un grossolano errore canonistico, inammissibile in un testo della portata della sua Declaratio. In secondo luogo, la perifrastica passiva convocandum esse (“deve essere convocato”) nell’uso classico regge un complemento d’agente al dativo semplice. In questo caso avremmo invece un peregrino e, di fatto, irregolare ab + ablativo (ab his quibus competit). Entrambe queste difficoltà si risolvono quando si intenda il complemento d’agente ab his quibus competit riferito non a convocandum esse, ma alla finale implicita ad eligendum (“per eleggere”). Oltre a ciò, curiosamente l’Autore impiega il pronome dimostrativo his (“costoro”) invece del determinativo iis (“coloro”), frustrando in questo modo l’orizzonte di attesa semantico attestato anche dall’imprecisa traduzione italiana ufficiale del testo pubblicata dalla Santa Sede (“da coloro a cui compete”). In questo modo la traduzione del testo risulterebbe la seguente: “dovrà essere convocato il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice da parte di costoro ai quali compete”. Benedetto XVI indice dunque la convocazione del Conclave, demandando l’elezione del nuovo papa “a costoro che ne hanno il diritto”, specificazione superflua, a meno che non serva a precisare che l’elezione del legittimo successore non è demandata all’intero collegio dei cardinali, ma solo ed esclusivamente ai cardinali allora presenti al concistoro, allora membri del collegio cardinalizio (con esclusione forse degli scomunicati latae sententiae a norma della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis). Nel quadro della ricostruzione che si è fin qui proposta su base testuale è possibile congetturare che Benedetto XVI non si riferisca qui al conclave (invalido) che avrebbe eletto il suo immediato successore nella gestione illegittima del ministerium pontificio, ma al conclave che sarebbe stato convocato, una volta svelata la sede impedita nella quale egli si era lasciato relegare e invalidata l’elezione di Bergoglio, per eleggere il proprio legittimo successore. Si tratta di un esempio raffinatissimo di quello stile comunicativo anfibologico che, inaugurato in questa Declaratio, Joseph Ratzinger avrebbe continuato ad impiegare fino alla vigilia della sua morte.
[11] Si rammenterà che l’Autore aveva già precisato che il munus petrino è reso esecutivo non solo con l’azione e la parola, ma “anche con la preghiera e la sofferenza”. La dichiarazione di intendere continuare a servire la Chiesa con la preghiera si collega dunque all’essenza profonda del munus, che in questo modo il papa sta indirettamente affermando di conservare, attraverso quella che potrebbe configurarsi come una rinuncia ai soli aspetti attivi ed operativi del ministerium petrino, di cui invece vengono custoditi gli aspetti più propriamente spirituali, quelli forse più direttamente collegati al munus, nella sua essenza spirituale.
TRADUZIONE ITALIANA (Corrias-Funari-Mosetti Casaretto)
Fratelli carissimi,
vi ho convocati a questo Concistoro non solo a causa delle tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza a vantaggio dell’esistenza della Chiesa. Dopo aver esaminato più e più volte la mia coscienza davanti a Dio, sono giunto alla consapevolezza certa che per il peso degli anni le mie forze non sono più adeguate ad amministrare l’ufficio (munus) petrino.
Sono ben consapevole che questo “munus”, secondo la sua essenza spirituale, debba essere reso esecutivo non solo con l’azione e la parola, ma altresì con la sofferenza e la preghiera. Tuttavia, nel mondo della nostra epoca soggetto a rapide trasformazioni e sconvolto da questioni di grande peso per la vita della fede, per governare la nave di San Pietro e per annunciare il Vangelo è necessario anche un certo vigore del corpo e dell’anima, che negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale, che devo riconoscere la mia incapacità ad amministrare bene il “ministerium” che mi è stato affidato. Per la qual cosa, ben consapevole del peso di quest’atto, in piena libertà dichiaro di rinunciare al “ministerium” di Vescovo di Roma, successore di San Pietro, affidatomi per mano dei cardinali il 19 aprile 2005, così che dal giorno 28 febbraio 2013, a partire dall’ora ventesima, la sede di Roma, la sede di San Pietro, resti vuota, e (dichiaro) che debba essere convocato il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice da parte di costoro ai quali compete.
Fratelli carissimi, vi ringrazio di tutto cuore per tutto l’amore e la solerzia con cui avete portato con me il peso del mio “ministerium”, e vi chiedo perdono per tutte le mie mancanze. Ora affidiamo la Santa Chiesa di Dio alla cura del suo Sommo Pastore, il nostro Signore Gesù Cristo, e imploriamo sua Madre Maria che assista i padri Cardinali nell’elezione del nuovo Sommo Pontefice. Per quanto mi riguarda, anche in futuro vorrei servire di tutto cuore la Santa Chiesa di Dio con una vita dedicata alla preghiera.